Marco Palombi, Il Fatto Quotidiano 6/5/2014, 6 maggio 2014
L’AUTUNNO DELL’INGEGNERE E LE TRASGRESSIONI DI UN EDITORE
Capita a volte, basti ricordare il caso di Francesco Cossiga, che l’accumularsi degli anni e l’avvicinarsi al confine della propria vita lavorativa liberino la personalità dai lacci delle convenzioni e la restituiscano all’osservatore al naturale. Eversiva, saturnina, oppositiva, autoindulgente e parecchio più divertente: libero infine, grazie a Dio libero infine.
Questa è solo un’ipotesi, ma pare proprio quel che sta capitando da qualche mese a Carlo De Benedetti: non più manager impettito, finanziere con codazzo, tessera numero 1 del Pd o capo del partito di Repubblica , ma uno di noi. Blogger d’assalto, polemista a 360 gradi, affibiatore di soprannomi ed editore all’opposizione dei suoi stessi giornali: prodigo di giudizi e frecciate che devono scuotere nel profondo il direttore di Repubblica Ezio Mauro, uomo uso a piemontese riservatezza, il quale - ne siamo sicuri - nel chiuso del suo ufficio accoglie le sparate dell’editore neoliberato, sospirando e alzando gli occhi al suo Kant in brossura.
Che qualcosa non andasse s’era capito già qualche mese fa, quando De Benedetti affidò il suo racconto sui retroscena dell’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi ad Alan Friedman, vale a dire un collaboratore del Corriere della Sera che stava scrivendo un libro per Rizzoli. Si fece finta di niente, a Largo Fochetti, ma le cose non migliorarono: Repubblica , per dire, tardiva scopritrice del renzismo, nel tempo ne è divenuta la Pravda, mentre il saturnino Carlo De Benedetti ha col nuovo premier un rapporto agonistico. Sono stati amici, poi no, poi di nuovo: ora sono in buona, tanto che il nostro ha preannunciato che sarà di nuovo a pranzo a Palazzo Chigi per spiegare al giovane Matteo come e perché per l’Italia sia meglio dichiarare un parziale default sul proprio debito (“quando mai gli Stati hanno pagato i loro debiti?”).
Tempo fa, però, ci fu un momento di vero gelo tra i due. Pietra del contendere la cosiddetta “Google tax”: l’editore ne fu uno degli sponsor, l’allora neosegretario del Pd vi si oppose e poi, da premier, l’ha anche cancellata (a metà). Ricostruzione dell’Ingegnere di un paio di giorni fa: “Ci sono miliardi di utili fatti in Italia da Google, Amazon e Facebook: dovrebbero essere tassati qui. Renzi è contrario, sbaglia: credo sia influenzato dall’ambasciata Usa”. A febbraio, comunque, le bordate contro il premier non partirono dalla nave ammiraglia di Repubblica , ma dal meno impegnativo blog dell’Huffington Post, lo stesso luogo da cui il nostro è tornato recentemente sull’argomento con un post dal titolo “Perché ho paura di Google” (in sostanza, perché è un potentissimo fattore di omologazione sostanzialmente incontrollabile dalla politica e da lui).
Il suo meglio, però, il nostro l’ha dato al Festival di Dogliani nel weekend: intervistato da Gianni Minoli, Carlo De Benedetti non s’è risparmiato. Ormai, d’altronde, ha sviluppato un certo senso dello spettacolo: l’uomo che ha aspettato 26 anni per dare la sua versione sulla cacciata dalla Fiat del 1976, ora abbonda in commenti e giudizi su quasi tutto. È pronto per un talk della domenica pomeriggio, stante che la sua versione saturnina lo rende inadatto al salotto di Fabio Fazio, di certo invece perfetto per una bella lectio magistralis di Ezio Mauro.
De Benedetti, come detto, ha tenuto la scena da dio: “Magari c’è un modo eccessivo della magistratura di rispondere a Berlusconi, può anche essere, ma la causa è l’impresario Berlusconi”; “magari l’avessero assegnato ai servizi sociali in una struttura sanitaria di Kos (del gruppo Cir, ndr): sarebbe stata una pubblicità eccezionale, l’avremmo trattato benissimo... Non ne sarebbe uscito vivo”. Agnelli? “Ottimo ambasciatore, pessimo imprenditore”. Tronchetti? “Bravo nella comunicazione, di più nella rapina”. Grillo? “Abbiamo perso un comico e acquistato un fascistello populista”. De Bortoli? “Un bravo direttore con delle debolezze: ha dato la terza pagina a Marina Berlusconi, io mi sarei fatto pagare”. Napolitano? “Il Pd gli sta sulle palle” e “si dimette tra poco: al suo posto vedrei bene uno alto e magro, Fassino”. Gli 80 euro di Renzi? “Sono solo uno spot elettorale” (scene di panico a Largo Fochetti). Sezione Fiat. “Sergio Marchionne ha salvato la Fiat: gli do 10 per immaginazione e coraggio, ma 4 in comunicazione e sincerità perché Fabbrica Italia non era credibile”. E a Romiti? “Zero”. E a John Elkann? “Un voto da nipote”. Papa Francesco? “Mi piace molto perché parla il linguaggio della verità e vuole scardinare quella fogna che è il Vaticano, è il Papa dei nostri tempi”.
Ieri poi, per non farsi mancare niente, se n’è andato all’assemblea Consob e, quando ha preso la parola il cardinale Scola, s’è alzato e ha lasciato la sala col fratello Franco. Spiegazione di quest’ultimo su Twitter: “Un organo dello Stato non si fa dare lezioni di etica dalla Chiesa”. Dai, Carlo, facci sognare. E noi faremo finta che Sorgenia non sia virtualmente già fallita.
Marco Palombi, Il Fatto Quotidiano 6/5/2014