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 2014  maggio 05 Lunedì calendario

SIR ROGER BANNISTER

[Intervista] –
Il cottage è accanto ad una scuola, poco distante dal fiume Cherwell. Ci sono fiori (quadri) sulle pareti e anche in giardino. Un pezzo di vecchia Inghilterra: tè, biscotti, libri, un’anziana coppia, Sir Roger e Lady Moyra, la foto di Churchill. Sono passati sessanta anni dall’unico record in cui nessuno sentì i secondi e nemmeno i decimi. L’annunciatore, Norris McWhirter, quello del Guinness Book, non riuscì a finire la frase: «Signore e signori, il tempo è di 3’...». Solo quello importava: la parola tre. La folla ruggì di felicità: tutti a correre, ad applaudire, ad abbracciarsi. Quel muro invalicabile non c’era più. La barriera sul miglio era caduta. Un uomo aveva corso la distanza sotto i quattro minuti. Come essere andati sulla luna, restando sulla terra. Il miglio inglese equivale a 1.609 metri e 36 centimetri e per i britannici è un brano di Shakespeare su pista: resistenza e velocità. Roger Bannister lo corse in 3’59”4. Era l’atterraggio in un altro mondo. Guardatevi la foto, sembra un grande quadro storico, dice tutto: sul tempo (meteo), sui tempi, sulla fatica e sulla commozione, su un paese che aveva appena finito di mangiare con la tessera del razionamento. Bannister, numero 41, è al centro, capo all’indietro, trasfigurato, nello sforzo finale, un giudice accucciato, pipa in bocca e impermeabile, annota, un cronometrista si copre il volto e scoppia in lacrime premendo il bottone che blocca le lancette, i compagni di corso, sullo sfondo, corrono sul prato. Cappelli, cappotti chiusi, freddo, nuvole.
6 maggio 1954. Iffley Road, Oxford.
«Quella mattina presi il treno da Paddington, seconda classe. Avevo 25 anni. Ero a sei settimane della laurea in medicina al St. Mary’s Medical School dove nel ‘21 il dottor Fleming aveva scoperto il lisozima, che precede la penicillina. Era una giornata gelida. Poco prima ero passato in laboratorio per cercare di limare e alleggerire i chiodi delle mie scarpette. Mi vide un compagno e disse: “Penserai mica di farcela con questo stratagemma?”. Non correva, non poteva sapere che ogni etto in meno quando sei sfinito è una benedizione. Non usavo nemmeno i calzini».
Andò a pranzo dai suoi amici.
«Da Charles e Eileen Wendon, che avevano due bambine. Lei preparò insalata e prosciutto cotto. Mangiammo in cucina, in un’atmosfera familiare. C’era così tanta serenità che pensai: tutto è possibile. Ma dopo, andando al campo, cambiai idea. La bandiera sulla chiesa di St. George sventolava in maniera pazzesca. Il vento soffiava a raffiche, non sembrava proprio il giorno giusto».
Stormy weather.
«In stazione a Londra, per fortuna avevo incontrato Franz Stampfl, che fece il viaggio con me».
Il suo coach.
«Io non l’ho mai chiamato così. Mi dava consigli, tutto qui. Veniva dall’Austria, aveva assorbito Freud. Credeva nella forza della volontà. Era naufragato, era sopravvissuto per oltre quattro ore nelle gelide acque dell’Atlantico. Il suo motto: don’t worry, it’s only pain. Non preoccuparti, è solo dolore. Se te lo diceva, ci credevi, l’aveva vissuto sulla sua pelle».
Stampfl la convinse a non desistere.
«Toccava a me decidere, se affrontare il temporale. Lui mi spiegò che a volte è meglio partire, piuttosto che vivere nel rimpianto. E che forse non avrei avuto un’altra occasione. Studiavo medicina, vivevo in una stanzetta, con una stufa su cui una volta a settimana cucinavo lo stufato di carne. Non so perché in tanti rimpiangono gli anni 50, a me non sembravano così belli».
Non era un aristocratico.
«Mio padre era l’ultimo di 11 figli. Vivevano nel Lancashire, nella Colne Valley, che ha ispirato Emily Bronte per Cime Tempestose. Lavoravano nella tessitura del cotone, ma ci fu la crisi, e papà si trasferì a Londra. Si mise a studiare, divenne impiegato e dirigente nella Pubblica amministrazione. Mi ha lasciato una medaglia. Ho scoperto troppo tardi che sopra c’era il suo nome. Aveva vinto una gara sul miglio. Non me l’ha mai detto. Non come i genitori di oggi che angosciano i figli con le loro imprese».
Come si allenava?
«Come capitava. Spesso di notte, dopo le lezioni, per mezz’ora. Sperimentavo l’interval- training. Correvo da nove anni, ai Giochi di Helsinki ‘52 ero arrivato quarto sui 1.500. Ma ero in un periodo in cui non miglioravo, così con il mio amico Chris Brasher decidemmo di distrarci in montagna. Partimmo per la Scozia, prendendo un passaggio in spider, non il massimo della comodità per me che sono alto. Scalammo montagne per quattro giorni, rischiammo la vita, ci facemmo entrambi male ad una caviglia. Poco cibo e niente sonno. Arrivò la preoccupazione: stiamo sbagliando tutto, meglio tornare a casa, prima di fare altri guai. Però in allenamento andavo più veloce».
Doveva migliorare di due secondi.
«Non era solo quello. Il record dello svedese Haegg, 4’01”4, durava da nove anni. E i 4 minuti sul miglio erano le colonne d’Ercole. Tutti erano convinti che fisiologicamente un uomo non ce la potesse fare. Ma io studiavo neurologia e sapevo che per andare al di là l’organo più importante è il cervello».
Così alle sei della sera.
«Il vento calò, smise di piovere, lo starter sparò. Tre amici e un sogno. Brasher fece falsa partenza, eravamo tutti nervosi. A lui toccò tirare i primi due giri, al terzo ci pensò Chataway, ma andò troppo piano. Mi toccò correre un ultimo giro sotto i 60”. All’arrivo svenni e quasi non ci vidi più. Bruciavo tutto, dolore ovunque, non avevo più voglia di vivere».
Il muro di pietra però era crollato.
«Sì, ce l’avevamo fatta. Quando dove e come volevamo. Lo sport ha anche questo di bello: ti insegna a stare insieme. Un francese chiese alla mia futura moglie: come sapeva che il suo cuore non sarebbe scoppiato? L’anno prima era stato conquistato l’Everest, Elisabetta era diventata regina. C’era un nuovo mondo in arrivo».
Ma il suo record era da Momenti di Gloria.
«Sì, nel senso che ero un dilettante, una categoria in estinzione. E per la diretta radio della Bbc c’era Harold Abrahams, oro nei cento metri ai Giochi del ‘24. Ci siamo detti: “Facciamolo per l’Inghilterra”.
E il giorno dopo?
«Andammo su una collina sopra la città. Brasher, Chataway e io. La vista era profonda. Ci chiedemmo: ora che facciamo? Uno disse: il giornalista, l’altro il politico, io il neurologo. Ci siamo riusciti, anche se io sono l’unico sopravvissuto. Mi sono ritirato dallo sport quattro mesi dopo. Volevo impegnarmi».
Ma come, aveva appena corso il Miglio del Miracolo.
«Me ne sbatto del record. Il mio vero trofeo è questo piccolo obelisco di vetro, un premio datomi nel 2005 dall’Accademia americana di neurologia. Lo sport è un passaggio, un momento, poi c’è altro. Un uomo deve realizzarsi, non replicare all’infinito. Così si arriva all’ipertrofia. Ho quattro figli, quattordici nipoti, non esercito più dal ‘93. I campioni di oggi non lasciano o come Phelps ritornano perché non hanno un’altra dimensione, né se la sono mai cercata. Non sanno come esistere».
Il suo record, che sturò un’epoca, durò appena 46 giorni.
«Già. Ho scardinato una porta invalicabile e ci sono passati tutti. Landy lo portò a 3’58”0. C’era sempre Chataway a spingerlo. Oggi è di El Guerrouj in 3’43”13. Penso si possa arrivare a 3’30’’. Il segreto è sempre quello: l’abilità di tirare fuori quello che non hai o che non sai di avere».
Il Miglio la rese famoso.
«Tantissimo. Mi scrisse anche John Kennedy, che conosceva il padre di mia moglie, presidente del Fondo monetario internazionale. Winston Churchill ci ricevette a Downing Street, sigaro tra le dita. Odiava lo sport, gli era estraneo, così non fece finta. E noi lo apprezzammo. Mi invitarono in America, rifiutai premi e regali, non potevo ricevere nulla al di sopra dei 20 dollari. Annullai una mia partecipazione quando seppi che era una marca di sigarette a sponsorizzarla. Fumo e sport: ma siamo matti? Ai Giochi di Tokyo ‘64 mi volevano come ospite. Rifiutai. Già mi immaginavo i commenti in ospedale: dov’è il dottor Bannister, ancora in qualche stadio?».
Si impegnò anche nel sociale.
«Come presidente dello Sports Council nel ‘75 ho varato il programma sport per tutti, a favore degli impianti pubblici, e ho iniziato i test per scoprire gli steroidi anabolizzanti. Ora da tre anni soffro del morbo di Parkinson. Un male che da neurologo ho molto trattato e non ho intenzione che questo interferisca tanto nella mia vita».
Ricevette pacchi di lettere.
«Una quantità spaventosa, da tutto il mondo, offerte di matrimonio comprese... C’era chi quasi era annegato allenandosi nella vasca da bagno a trattenere il fiato per meno di quattro minuti».
Non c’era ancora internet, dove scovavano l’indirizzo?
«Guardi la busta: Roger Bannister, miler, England».