Emiliano Liuzzi, Il Fatto Quotidiano 5/5/2014, 5 maggio 2014
DECLINO ALITALIA: LA FUGA DEI PILOTI
Negli ultimi cinque anni se ne sono andati via in duecento. Novanta di loro sono stati assunti dalla Emirates, considerata dai viaggiatori una delle migliori compagnie aeree del mondo. Coccolano i viaggiatori, ma anche il personale di volo. Un primo ufficiale ufficiale guadagna il doppio rispetto a quelli assunti da Alitalia che, con il massimo dei requisiti arrivano a 5 mila euro al mese. In più hanno benefit come l’auto, la casa, i pasti rimborsati, alberghi a cinque stelle. E soprattutto non sono precari.
E’ per questo motivo che molti di loro hanno scelto di lasciare la compagnia italiana e sono volati all’estero. La precarietà, soprattutto. L’instabilità di una compagnia, l’Alitalia diventata Cai, che oscilla in maniera costante. Sembrava che i capitani d’industria avessero intenzione di risollevarla. Così non è stato. Inoltre la compagnia vanta una flotta molto giovane. E’ vero, ma la maggior parte degli aeromobili non sono di proprietà, ma vengono presi in leasing attraverso una società, la Aircraft Purchase Fleet Limited, proprietà di Carlo Toto, ex patron di AirOne, confluita in Alitalia. Società che offre apparecchi in leasing a costi molto elevati rispetto a quanto potrebbero fare direttamente Boeing o Airbus.
LUNGA EMIGRAZIONE
Oggi la compagnia di bandiera con base a Fiumicino stenta a trovare un acquirente. Etihad, compagnia degli Emirati Arabi, ha messo sul piatto un’offerta che viene ritoccata al ribasso e prevede altri esuberi, almeno tremila. “Me ne sono andato”, racconta un comandante, “e mi hanno fatto ponti d’oro. Sbarcato alla Emirates, base a Dubai. Lontano dal mio Paese, dai miei affetti. Ma la situazione era diventata insostenibile. E il problema non sono i guadagni. Io ero, lo sono ancora, affezionato all’Alitalia. E’ stata la mia prima occupazione. Quando ho finito il militare alla 46 esima aerobrigata di Pisa e mi hanno messo ai comando di un Dc9, secondo pilota, è stato il momento più emozionante della mia vita. Volevo volare, mi dettero un aereo. Facevo le rotte nazionali. Poi dal Dc9 all’Md80, fino all’Airbus A320 e al Boeing 767. Una carriera sempre in decollo. Poi è iniziata la crisi. I licenziamenti, la gente messa in pensione prima del tempo. Ma io non ne avevo intenzione. E ho preso la decisione più dolorosa: andarmene. Per noi lasciare la compagnia e il nostro aereo è una sofferenza, ma non c’era scelta. Gli ultimi anni sono arrivate con difficoltà le divise, di tessuto pessimo o, comunque, non adatto ai voli intercontinentali. Prodotti chissà dove. Ordinavo la divisa 52 e mi arrivava una giacca lunga e i pantaloni stretti. Meglio farmela confezionare a spese mie, non avrebbe cambiato la mia vita. Negli alberghi, dopo un volo di 13 ore, ti trovi con i colleghi di tutto il mondo. Loro hanno il buoni pasto, la colazione inclusa, noi no. Sembrano dettagli, lo sono, ma quando voli esiste anche una qualità della vita che è sinonimo di sicurezza. Un anno, a un rinnovo contrattuale, rinunciammo a un aumento di 50 euro in cambio di un pulmino che dalle nostre abitazioni portasse l’equipaggio a casa. Ci è stato tolto con la motivazione che non potevamo avere l’autista. Va bene, ma ce lo siamo pagato con la rinuncia all’aumento. Dettagli, ancora dettagli, non c’è dubbio. Ma non c’erano più le condizioni. Ci accusano di guadagnare uno sproposito, e così non è: in qualsiasi compagnia aerea, almeno in Oriente, l’ultimo arrivato guadagna quanto in Alitalia prende un primo ufficiale al massimo della carriera. Siamo andati via in molti, c’è un sito, per gli addetti ai lavori, che è alla continua ricerca di piloti italiani. Emirates, ma anche Cathay Pacific, China, Thaj. Etihad stessa. Le migliori compagnie al mondo. Chi è rimasto lo ha fatto per altri motivi altrimenti oggi non ci sarebbero equipaggi. Motivi familiari, difficoltà a lasciare il Paese. In caso contrario sarebbero fuggiti tutti”. Una domanda è d’obbligo: perché parlare senza nome e cognome, in forma anonima. “Perché è già una sofferenza parlarne, sputare nel piatto dove ho mangiato per quasi 25 anni non mi va assolutamente. Ho raccontato una serie di problemi perché spero che un giorno siano risolti, perché chi diventerà pilota domani torni a volare orgoglioso come quel giorno in cui mi pilotai il Dc9. E che smetta di essere una casa di veleni e raccomandazioni, precarietà, licenziamenti dalla sera alla mattina”.
Per chi è andato via, c’è anche chi è rimasto. Problemi di famiglia. In questo caso l’anonimato è giustificato dalle pressioni che l’azienda fa sul personale. “Ogni giorno riceviamo offerte di lavoro e se non è Emirates sono compagnie altrettante ottime che il personale, soprattutto quello volante, se lo coccolano. E alla fine, di riflesso, coccolano anche i passeggeri. Ma a me non toccare la mia macchina, il mio aereo, e la mia compagnia”. 51 anni, primo pilota a lungo raggio, parla dei pregi e dei difetti, della gestione che fu dell’Iri e di quella che poi è diventata Cai. “Uno dei guasti dai quali Alitalia non riesce a uscire è il rapporto tra persona che vola e quello che rimane a terra. In Alitalia siamo uno a 30, nelle altre compagnie, in tutto il mondo, è uno a 7. Questo credo sia uno dei problemi quasi insormontabili, frutto di mala gestione, di raccomandazioni, di persone parcheggiate perché non sapevano dove metterle. Poi ci sono le politiche aziendali, anche quelle degli ultimi anni, la gestione Cai. L’aeronautica è un settore molto particolare, non può essere gestito come una banca o una finanziaria. E gli errori si pagano, alla lunga. Le politiche. I compromessi. Non si capisce, per esempio, perché Cai prenda in leasing gli Airbus A330 da Toto, ex Air One, quando costerebbero molto meno prenderli direttamente dall’Airbus. E comunque, il lungo raggio si chiama Boeing, non Airbus. Ci corre la differenza tra una Panda e una Ferrari. E in questo modo si perdono passeggeri. E hanno fatto volare il Papa sull’A330 e lo stesso accadrà al prossimo viaggio. Non credo che gli ambienti del Vaticano l’abbiano presa bene”.
LE TRATTE SBAGLIATE
Le tratte, poi. “Noi”, racconta ancora il comandante, “facciamo il Milano-Los Angeles soltanto stagionale. In inverno il monopolio è Air France, da Parigi, e il volo è sempre mezzo vuoto. Partisse da Milano tutto l’anno sarebbe pieno. Lo sappiamo. Altro esempio, Fortaleza. A un certo punto la compagnia doveva scegliere se volare diretto a Fotaleza o a Città del Messico. La scelta è stata Fortaleza, macchina sempre mezza vuota. Per il Messico saremmo partiti pieni. Gli errori si fanno. E’ l’ottica del risparmio che non torna. Non si può, almeno se si vuole stare in competizione su un mercato globalizzato. In Italia si è rinunciato a un collegamento veloce con gli aeroporti perché c’è sempre una lobby dietro l’angolo che lo impedisce. I tassisti di Roma non vogliono un treno veloce per Fiumicino, ma probabilmente è solo una questione di principio. Lo stesso accade per questioni di campanile. Firenze ha un aeroporto declassato, dove volano solo alcune macchine perché la pista è corta, ma non vuole che i passeggeri si spostino a Pisa, uno dei migliori aeroporti italiani per condizioni di decollo e atterraggio. E allora non si fa il collegamento”.
Il domani di Alitalia si chiama Etihad. Ancora tagli al personale e nessuna uscita immediata dalla crisi. Con una gestione tutta da scoprire. Le condizioni sono chiare: il 51 per cento a Cai, il 49 a Etihad, esuberi, vertenze e debiti che finiranno in una bad company.