Fulvio Bufi, Corriere della Sera 7/5/2014, 7 maggio 2014
«È UN’INGIUSTIZIA, MA ME L’ASPETTAVO»
L’uomo della «trattativa» colpito dal divieto. I suoi: lo mettono in mezzo NAPOLI — Genny sarà pure un pessimo elemento, con i tatuaggi, i precedenti penali, la faccia truce e quella dannata maglietta, che poi è la stessa che gira in tutte le curve d’Italia e ce ne siamo accorti solo sabato che ce l’aveva addosso lui. E saranno pessimi elementi pure i suoi compagni di tifo, gente che riconosce solo il codice ultrà e che non si tira mai indietro, quando c’è da battere non le mani ma spranghe e catene contro i poliziotti o qualche tifoseria rivale.
Saranno pure pessimi elementi, questi della curva A del San Paolo, ma fessi no. E allora nel giorno, anzi nella notte, in cui tutti si aspettano che faranno le peggio cose, loro scelgono di non fare niente. Nemmeno la protesta del silenzio. Niente. Si schierano al centro della curva, perché il centro è di chi comanda e comandano loro, su questo non ci piove. Si mettono lì e guardano la partita.
Non fanno nient’altro perché ora è il momento di proteggere Ciro, pure se a metà giornata il Daspo è arrivato e Genny certo non si è sorpreso. Quando lo hanno convocato in questura per la notifica ha detto «me l’aspettavo, non è giusto ma me l’aspettavo». Però era convinto che gli ultimi novanta minuti in curva gli sarebbero stati concessi. Anzi, nemmeno novanta. Aveva già deciso che sarebbero stati quindici o trenta. Sarebbe entrato in curva insieme ai suoi, sempre per ultimi, quando tutti gli altri settori sono ormai pieni. Avrebbe salutato gli amici senza nemmeno andarsi a mettere in prima fila, spalle al campo, a dirigere i cori. E poi se ne sarebbe andato. con la consapevolezza di doversi dimenticare per un po’ del San Paolo e delle trasferte, e di dover tornare dall’avvocato per preparare l’ennesimo ricorso, come fece anche l’ultima volta, quando il questore di Siena gli inibì l’accesso negli stadi per cinque anni (come stavolta) e lui invece tre anni dopo era giù di nuovo in curva perché il ricorso fu accolto e il Daspo revocato.
Era questo l’unico programma stabilito nella riunione che il gruppo dei Mastiffs fa ogni martedì, ma che ieri non era un incontro di routine. C’erano quelle magliette nere con la scritta «Speziale libero» fatte stampare a migliaia e già consegnate, e ora si doveva decidere che farne. Se indossarle e sfidare la questura, che già a metà mattinata aveva diffidato tutti i gruppi ultrà a fare provocazioni: qualunque scritta offensiva fosse comparsa sugli spalti, la partita sarebbe stata sospesa, o non sarebbe nemmeno iniziata.
Però, quando si è ultrà come lo sono i Mastiffs — duri e puri e contro tutto e contro tutti — non è facile decidere quello che è più pacifico. E la riunione della mattina non è stata una passeggiata per quelli che volevano rinunciare alle magliette, quelli che forse per la prima volta nella loro vita di tifosi hanno detto, vabbé, stiamocene calmi. I più giovani volevano indossarle, per solidarietà con Genny, stavolta, più che con Speziale. Alla fine ha prevalso la linea della protezione del capo. «Non è stata una decisione facile, perché ci siamo sentiti come se avessimo accettato un compromesso», racconta uno di quelli che ha partecipato alla riunione del mattino e che in cuor suo la maglia provocatoria voleva indossarla, ma ha rinunciato «perché in questo momento dobbiamo pensare soprattutto a lui. Lo vogliono mettere in mezzo e dobbiamo stare attenti».
Cautela inutile, perché poi con la notifica del Daspo la scena è cambiata, e allora l’anima ultrà pronta allo scontro è riemersa, e ogni gruppo si è avviato verso il San Paolo per decidere insieme agli altri che cosa fare. Non entrare, per esempio. Restare fuori e lasciare un grande spazio vuoto al centro della curva A, molto più grande di quello lasciato dall’altra curva per sottolineare la forzata assenza dal San Paolo di Ciro Esposito, il ragazzo ferito sabato a Roma. Ancora una riunione, quindi. Accanto ai giardini davanti ai cancelli dello stadio. Capannelli, segni d’intesa. Senza Genny a dettare la linea, e senza Massimiliano Mantice, Massimo, come lo chiamano loro, l’altro capo che ha ricevuto il Daspo. Poi la decisione. Si va dentro. Come sempre. Con i cori, ma non subito: aspettiamo prima che si cominci a giocare e poi iniziamo noi. Però quando l’intero stadio invoca il nome di Ciro con lo stesso motivo che usava quando il nome scandito era quello di Diego, allora anche la curva A partecipa. E al tifoso che ancora lotta per sopravvivere, gli ultrà dedicano l’unico striscione della serata. Niente frasi in rima, stavolta, che è una loro specialità. Solo un piccolo drappo bianco che resta sulla balaustra della curva esattamente per tre minuti. Sopra c’è scritto solo Ciro. Poi ritirano anche quello. E per una serata fanno quello che non hanno mai fatto: non si rendono riconoscibili, non rivendicano l’appartenenza, non protestano contro la tessera del tifoso. Finché non parte il coro da pessimi elementi: «Romani, non è finita qui», urlano. E più che un coro è un avvertimento.