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 2014  maggio 04 Domenica calendario

ARNALDO POMODORO “AMAVO MIO PADRE MA L’AVREI UCCISO PERCHÉ SPARIVA CERCANDO AVVENTURE”

[Intervista] –

La forma è tutto. Le mani sono tutto. Guardo quelle di Arnaldo Pomodoro. Grandi.
Solide. In un certo senso misteriose. Le incrocia come ali di un angelo caduto. Penso che tutta la vita di questo artista sia stata all’insegna di un doppio movimento: la felicità esibita e l’infelicità nascosta. Il pubblico e il privato. L’esterno e l’interno.
Polarità che in uno scultore come lui hanno agito, scavato, combattuto. Guerra di confine, verrebbe da dire. Lo ascolto mentre parla tra le sonorità museali della sua Fondazione. Voce suadente. Innocentemente perduta dietro ricordi che non ricordano e che sono qui a dire di lui e a non dire. Ambiguità umana? Forse. Pomodoro trascina la memoria come Madre Coraggio la sua carretta.
C’è fatica, attrito, sofferenza trattenuta dietro i modi gentili con cui porge al visitatore la sua versione di vita: «Ho quasi 88 anni e la sensazione di averli vissuti in una perenne oscillazione tra la ricerca di un mondo impossibile, quello artistico, e il mondo reale consegnato alla durezza e alla delusione. Qualche volta i due mondi hanno combaciato. Creando l’effetto ottico di un’armonia voluta, sperata, ma al tempo stesso insidiata».
Da cosa?
«Dall’idea che niente può durare a lungo. Sorvolo sugli effetti fisici di un’affermazione del genere. Ma quelli psicologici pongono di fronte a un’idea che insieme mi affascina e mi fa orrore: il limite. Un artista non può fare a meno del limite e della possibilità interiore di trasgredirlo. È sempre stato così per me. Fin dai primi sogni da ragazzo».
Come si ricorda?
«Ero timido, introverso, spaventato all’idea che quanto segretamente desideravo potesse essere ostacolato dalla famiglia».
Oppressiva?
«Non in quel senso. Votata alle scelte concrete. Il nonno paterno era un medico veterinario e farmacista. Inventò una medicina per la cura di una malattia che faceva morire le mucche. Possedevamo della terra che dava da mangiare a tutti e permise a mio padre di non fare mai nulla».
Nel senso?
«Era un uomo ozioso. Detestava ogni forma di lavoro. Lo zio, presidente di corte di cassazione a Roma, parlava di lui con disgusto. Si chiedeva come era stato possibile che un soggetto del genere fosse scaturito dalla famiglia Pomodoro».
La pecora nera.
«Più che nera, folle. L’amavo, ma l’avrei ucciso. C’era da vergognarsi ad essere suoi figli. Un fannullone che quando poteva spariva per settimane. Mollava la famiglia. Gli piaceva la vita facile e avventurosa. Quando conquistammo la Somalia si lasciò inghiottire da quelle terre. Non lo vedemmo più per due anni».
Non ne parla con risentimento.
«Era un sognatore. Il suo lato migliore. Nonostante non avemmo mai un buon rapporto, quando capì i miei tormenti, legati a cosa avrei dovuto fare della mia vita, mi disse con grande semplicità: non fare in modo che distruggano i tuoi sogni».
E cosa sognava?
«Sognavo in continuazione i castelli di sabbia. Quella bellezza effimera e infantile che talvolta costruivo sulla spiaggia adriatica. Qualche tempo dopo quella pulsione si sarebbe trasferita nell’argilla».
Accennava alla concretezza familiare.
«Finite le medie avrei voluto iscrivermi al liceo artistico. Mia madre e mio nonno pretesero una scuola che desse reali sbocchi professionali. Fu così che alla fine mi ritrovai con il diploma di geometra. Studiai a Rimini, durante la guerra».
Dove era nato?
«A Morciano di Romagna, di lì veniva mia madre. L’ultimo anno di guerra, l’inverno del 1944, fu durissimo. C’eravamo trasferiti a Pesaro. Il solo passatempo erano le lunghe passeggiate lungo il mare alla ricerca degli ossi di seppia, che in seguito sarebbero diventati importanti nel mio lavoro di scultore».
Quando decise di diventare scultore?
«In pratica dopo il mio incontro con Lucio Fontana. Nel frattempo, era l’autunno del 1953, c’eravamo trasferiti a Milano. Lavoravo per il genio civile. Ma già nel tempo libero creavo monili, decorazioni. Fontana ci vide del talento. Mi sentii gratificato da quest’uomo gentile, dalla sua dedizione ai giovani e da un’arte che non aveva eguali. Compresi pienamente l’importanza del suo lavoro quando andai in America, nel 1959».
Cosa la portò lì?
«Una borsa di studio. Restai tre mesi. Si aprì un mondo che non immaginavo. Poi, nel 1962, firmai il mio contratto con la Marlborough Gallery che determinò la mia ascesa negli Stati Uniti».
Che ambiente trovò?
«Straordinario. Feci subito amicizia con Louise Nevelson. Grazie a lei conobbi i grandi che allora si affermavano: non Jackson Pollock che era già morto; ma Robert Rauschenberg, un uomo molto alla mano, Jasper Jones, un essere chiuso e solitario; Franz Kline, il più anticonformista. Per tutti loro la fine della guerra fu un’esplosione di creatività».
Come guardavano agli artisti italiani?
«Passavamo dall’essere degli sconosciuti a un momento di interesse. Grazie ad Afro, che era stato in America fin dagli inizi degli anni Cinquanta, l’arte italiana cominciò a suscitare curiosità. E poi ci fu il fenomeno Burri: prigioniero di guerra in Texas, cominciò a realizzare i suoi celebri “sacchi”. Nel 1953, con le mostre a Chicago e a New York, Alberto rivelò al mondo americano tutto il suo talento».
Quando lo ha conosciuto?
«La prima volta che lo incontrai fu a San Francisco. Dove insegnavo. Vidi, a un piccolo ricevimento, quest’uomo severo e dolce al tempo stesso. Era il 1966. C’era la contestazione di Berkeley. Non si parlava d’altro. Girava una quantità di marijuana pazzesca. A un certo punto la conversazione si soffermò su un protagonista di quel momento «Timothy Leary, che stava avendo un’influenza incredibile su tutto il movimento giovanile. La sua predicazione dionisiaca girava tutta intorno a una sostanza allucinogena, allora sconosciuta: Lsd. Fu il primo, in assoluto, a unire spettacolo, politica e rivoluzione. Viaggiava.
«Sì, era abilissimo, dotato di un gusto snob e istrionico. Tratti che in un certo senso ho ritrovato in Andy Warhol, la cui rivoluzione artistica fu ben più profonda e duratura».
Si riferisce alla Pop Art?
«E a quello che generò. È stato un fenomeno che non sarebbe mai nato senza Duchamp. Per tutto il movimento figura più importante di Picasso».
Le piace Picasso come scultore?
«Grande. Ma preferisco Brancusi. Per il tipo di lavoro che svolgo senza Brancusi non sarei mai nato. Con lui la forma viene progressivamente distrutta, ma si legge ancora. È un miracolo di equilibrio tra il vedere e la cecità. La stessa emozione “distruttiva” me la provocò Pollock».
Cosa vuol dire «distruggere la forma»?
«Sottoporla al movimento, all’attrito del tempo. Sono convinto che nella relazione segreta tra la forma e chi la compie si riveli il perché sia stata realizzata in quel modo ».
«Il grande artista è colui che segretamente conosce tutto questo. Penso a Paul Klee».
Perché Klee?
«Gli devo la scoperta dell’interiorità, del profondo che c’è in ciascuno di noi. Era un genio assoluto. Con quattro semplici segni esplorava il mondo».
Vengono in mente le sue Sfere.
«Ho sempre pensato che la sfera ha una sua energia misteriosa. La sua presenza crea un altro spazio. O meglio trasforma quello esistente».
Un’energia che arriva da dove?
«Dal suo interno. La perfezione di una sfera non sta nella sua chiusura inviolabile, ma nell’immaginarla aperta. Dovevo realizzarla come un tutto tormentato e corroso. Dunque aperta, sino al punto che il suo interno dialogasse o ferisse la superficie esterna».
Sembra Fontana.
«Anche a lui devo molto».
L’oggetto d’arte non riposa sulla quiete?
«No, sarebbe la sua morte. La forma è movimento. Lo capì perfettamente Boccioni, il primo grande artista della scultura novecentesca».
È curioso che un artista come lei, così dedito al movimento, abbia poi dato vita a una Fondazione.
«Che c’è di strano?».
Le fondazioni di solito celebrano l’artista scomparso. In vita rischiano di imbalsamare il suo lavoro. Come si fa a fondare l’infondabile, cioè l’arte?
«È un bel problema, capisco. Ma non ho figli e ho sempre nutrito l’ambizione di creare qualcosa di stabile attorno al mio lavoro. Mi rappresenta e ciò mi basta».
La ritiene una forma di potere?
«Ho i miei dubbi che un artista sia un uomo di potere. Anche se con esso deve scendere a patti: gli ordini, un tempo si chiamavano committenze, arrivano dalle istituzioni pubbliche, dalle grandi aziende, raramente da singoli individui».
Come giudica l’attuale arte contemporanea?
«È fatta per lo più di pura apparenza. Interessa persone che amano l’originalità, ma non la profondità della forma. Sono vecchio. Mi interessa toccare la materia».
Cosa intende per profondità della forma?
«Che il messaggio spesso cambia, ma la forma resta».
Le piace l’arte di suo fratello, Giò Pomodoro, anche lui scultore?
«Venivamo da sensibilità differenti. Esperienze, in parte almeno, diverse».
Come sono stati i vostri rapporti?
«Non sempre facili. Però alla fine il legame con lui si è chiuso benissimo. Prima di morire mi disse: ho ritrovato un fratello».
Vi eravate persi?
«La vita a volte divide e genera fraintendimenti e dolori. Ma occorre rispetto verso chi non c’è più».
Cos’è che vi ha più allontanati?
«Forse la politica. Ed è strano provenendo dalle stesse idee. Solo che le sue erano il frutto di una fedeltà al comunismo. Un’ortodossia che non ho mai condiviso».
Si sente libero?
«Libero di amare e di ferirmi».
È strano, ma tutto il suo lavoro, da un certo punto di vista, sembra una richiesta di aiuto: capire meglio cosa si agita nel suo mondo interiore.
«Forse è vero. Nel mio lavoro metto anche le mie contraddizioni».
Un modo di risolverle?
«Di renderle pubbliche. Faccio un po’ fatica a parlare di questo argomento. Ogni tanto mi capita di avere un rigetto dell’opera che realizzo. Ci sono dei giorni storti in cui vedo solo i difetti di un lavoro compiuto».
La crisi di un artista è anche crescita.
«Sono spesso in crisi. La sento montare da dentro. Me ne accorgo perché mentre realizzo una cosa, percepisco che potrei farla in mille altri modi diversi. Questa è insieme la forza e la fragilità di un artista».
Forza e fragilità non sono quasi mai in equilibrio.
«Per questo alcuni ricorrono alla psicoanalisi».
Lei ha mai fatto analisi?
«La prima volta che mi ci hanno mandato capii che ero io a psicoanalizzare lui e non viceversa».
Quando è accaduto?
«Tantissimo tempo fa. Ero un ragazzo che non capiva più bene cosa stesse facendo. Ero il frutto di una fantasia».
Un’energia che non trovava forma?
«Le idee che non si realizzano sono quelle che alla lunga uccidono».
E cosa sono queste sue idee?
«Qualcosa che cresce in me, che vedo solo io e che non posso spiegare. È un processo faticosissimo. A volte mi dicono: beato te che fai questo mestiere. Ma davvero si può pensare che le idee nascano spontaneamente? Il mio lavoro è il frutto di mille complicazioni. È il vero e il sogno».
Qual è la distinzione?
«Un artista rinuncia a tracciare un confine».
Lei sogna?
«Dormo in un’agitazione permanente. E questo secondo me significa che sogno molto. Ma alla fine non ricordo nulla. Tranne un sogno che ricorre».
Quale?
«Io bambino che gioco nello slargo di una piazzetta medievale con altri della mia età. Rincorriamo una sfera. Soccombo. E poi vedo la sfera precipitare giù per le scale e vengo preso dall’angoscia terribile che si rompa. So che è la mia prima sfera che realizzai per il tetto del padiglione di Montreal nell’Expo del 1967. E quella sfera invece di rompersi finisce nell’acqua e galleggia».
Che lettura ne dà?
«Ci vedo una specie di nascita. Quella sfera è una cosa mia, ma come se non l’avessi partorita io. Penso che somigli al destino dell’artista: quello che fa gli può appartenere solo attraverso gli altri».

Antonio Gnoli, la Repubblica 4/5/2014