Mario Serenellini, la Repubblica 4/5/2014, 4 maggio 2014
LEWIS PRIMA DI CARROLL
Tiratura: una copia. Anno di pubblicazione: 1849. Editor, un diciassettenne che, oltre a essere direttore responsabile, è anche il principale redattore, l’illustratore unico e lo stampatore in proprio, o meglio, l’amanuense solitario. La rivista è infatti da lui manoscritta, dalla prima all’ultima pagina: novanta in tutto. Settimo di otto numeri, tutti realizzati durante le vacanze tra il 1849 e il 1850 insieme ai dieci fratelli e sorelle, tra cui la sorellina di cinque anni, The Rectory Umbrella (“L’ombrello del rettorato”) è il primo Paese delle meraviglie letterarie del futuro autore di Alice, Lewis Carroll. Che ancora non si chiamava così, ma conservava l’austero nome di battesimo: Charles Lutwidge Dodgson.
Quel Charles Lutwidge Dodgson verrà comunque subito sottomesso alle sole iniziali, C. L. D., o mascherato nelle numerose rubriche autografe da infinite sigle, V. X., B. B., F. L. W., J. V., F. X., Q. G., secondo quella vocazione allo pseudonimo e al travestimento letterario che accompagnerà l’intera produzione di Carroll. Anche le sezioni di questa rivista casalinga, distribuita in famiglia e tra gli ospiti del rettorato di Croft-on-Tees, nello Yorkshire, dove i Dodgson abitano per venticinque anni, sono un anticipo di futuro. Fin dal primo numero ( The Rectory Magazine) il periodico svirgola nelle direzioni già predilette dal maestro del nonsense: racconti a puntate, articoli “scientifici” di zoologia immaginaria, filastrocche parodistiche, pastiches in rima, giochi matematici, paradossi logici. E gli amati indovinelli, in una spassosa Piccola posta che elenca le soluzioni ai problemi anziché i problemi (cui sta al lettore risalire): procedura a rovescio che anticipa Alice attraverso lo specchio (1872), dove prima si mangia la torta, poi la si taglia a fette e infine la si mette a cuocere nel forno.
In questa giovanile festa di futuro, rifulge un bizzarro romanzetto, The Walking Stick of Destiny (“Il bastone da passeggio del destino”), tradotto e pubblicato per la prima volta in volume nelle edizioni francesi Sillage, che riuniscono le otto puntate in cui è suddiviso nel manoscritto originale di The Rectory Umbrella (conservato alla Harvard di Cambridge, Massachusetts, e rispolverato in copia anastatica da Dover nel 1932, centenario della nascita di Carroll). Illustrato da frizzanti disegni (sedici nel manoscritto, dieci ripresi nel volumetto francese), di perizia persino superiore a quelli per Alice Underground (la prima versione, del 1864, che l’autore offrirà in dono alla bambina), The Walking Stick of Destiny è un sorprendente presagio di trovate, giochi di parole, nonsense poi ricorrenti nel capolavoro di domani. Di trama strampalata — già buon segno dello scrittore che verrà — il microromanzo si diverte a intrecciare trame lambiccate dentro ambienti aulici o di fiaba — il castello d’un Barone non meglio identificato e l’antro d’un Mago da operetta — in un abile andirivieni narrativo a montaggio alternato. Dove il giovane Dodgson, che non esita a fare il verso a Dickens o a Shakespeare (i seicenteschi Thou e Thee, invece di You , nei momenti ironicamente alti della narrazione), sa già padroneggiare, rimescolandole liberamente in chiave umoristica, le convenzioni letterarie: come l’irruzione diretta dell’autore (“Lettore! Se non hai nervi adamantini, non voltare questa pagina!”) che dalle ilari follie dello Sterne di Tristram Shandy (“chiudete quella porta!”) arriva all’interazione autore- lettore-personaggi nel Roman d’Ernest et Célestine di Pennac. Ma il piacere più sottile di giocoliere letterario s’indovina nell’uso funambolico delle note (che in funzione di glossa beffarda ci hanno deliziato nelle tavole di Jacovitti o nelle graphic novels di Altan), qui destinate talora a rinviare alle illustrazioni, come avverrà nella Nursery Alice (1889), la versione ridotta e colorata per bambini «dagli 0 ai 3 anni». Le più frequenti e giocose sono le glosse riferite al testo. Ad esempio, a commento del dialogo «Hai la mia parola » — «Per la tua parola, non darei due soldi», guizza la comica “nota della spesa” dell’autore: «Se ne può dedurre che valeva circa un soldo e mezzo. Tenendo conto del proverbio “Parola tra ladri / spariscon due quadri”, si può ragionevolmente concludere che i due avevano da spartirsi attorno ai tre soldi».
Copiosi anche altri segnali d’una nativa disposizione al divertissement letterario, costante poi nella sua opera, dall’ammiccante mimesi verbale («accondiscese a prender commiato» si dice d’un personaggio «disceso» di colpo, perché defenestrato) alle trionfali parole-baule: “confuscato”, «forse impasto di confuso e offuscato, perché la signora Cogsby presentava la particolarità di non distinguere gli aggettivi». Ma, soprattutto, lo scherzoso romanzo del Carroll degli inizi, già profeticamente sfrenato, è più volte una precoce palestra di Alice e Attraverso lo specchio. Non solo per il gusto della parafrasi caricaturale dei poeti consacrati (di cui fa qui le spese la figura ridicola d’un poeta di corte, il molto allusivo Milton Smith) ma anche per l’attrazione fatale verso grovigli verbali impazziti, come il labirintico discorso del Barone (che induce via via gli uditori a svuotare la sala), primo germoglio dell’enigmatico Jabberwocky ( poesia nonsense scritta da Carroll nel 1871) a sua volta antenato del Finnegan’s Wake di Joyce.
E ora, lettore, affronta le ultime righe. Alice abita già qui. «Sono in ritardo, sono in ritardo!», primo gemito angosciato del servitore del Barone, quando «l’orologio ha appena suonato mezzogiorno e un quarto più due minuti», prepara il refrain del trafelato Coniglio Bianco. Ma anche Humpty Dumpty, l’oscillante ometto-ovetto di Attraverso lo specchio, è già uomo sodo: è la patata «con braccia e gambe», in atterraggio oculare sulla formula del Mago, letta «al contrario», come si conviene a chi dovrà passare la vita in un mondo a rovescio. Ma soprattutto, la celebrazione finale d’un processo di cui, già kafkianamente, non si conosce l’imputazione e forse nemmeno il colpevole, è un preassaggio dell’accusa che risuonerà nel tribunale della Regina Rossa: «Chi ha rubato le torte?». Il romanzino di quindici anni prima ne lancia la prima requisitoria: «Allora parlò il Mago: L’uomo che accuso, se mai d’uomo realmente si tratta, è...». Viene in soccorso l’abituale noterella: «In molti hanno chiesto all’autore, invano: “Ma che aveva fatto?”. L’autore non lo sa». Nessuna sorpresa, Virginia Woolf ci ha da tempo avvertito: «I libri di Carroll non sono libri per bambini, sono gli unici libri in cui ridiventiamo bambini».
Mario Serenellini, la Repubblica 4/5/2014