Federico Rampini, la Repubblica 4/5/2014, 4 maggio 2014
SAMSUNG COPIÒ APPLE ORA DOVRÀ PAGARE 120 MILIONI DI MULTA
NEW YORK.
Apple vince ai punti contro Samsung, nel “campionato senza fine” che oppone i due colossi mondiali degli smartphone nelle aule di tribunale. L’ultimo verdetto della giuria federale di San Jose, California, ha stabilito che la sudcoreana Samsung ha violato due brevetti di Apple e per questo dovrà pagare 120 milioni di dollari di risarcimento alla concorrente. A sua volta Apple è stata giudicata colpevole di violazione di un brevetto Samsung e le tocca pagare danni per 160 mila dollari. E’ solo una puntata di una lunga serie di processi dalle “accuse incrociate”, e stavolta le somme sono trascurabili. Rispetto ai bilanci di Apple e Samsung questi indennizzi sono minuscoli, Apple incasserà meno di quanto ha speso per gli avvocati. In un giudizio precedente, che riguardava altri brevetti, Samsung aveva perso e in quel caso l’indennizzo era stato fissato a ben altro livello: 930 milioni. Ma il senso della vicenda è tutt’altro che irrilevante. Gli esperti giudicano che nell’insieme sia Apple la vera perdente. Fu l’azienda fondata da Steve Jobs a lanciare questa costosa guerra legale con un obiettivo strategico: frenare l’avanzata dei concorrenti, e affermare il principio che l’iPhone è un gioiello all’avanguardia dell’innovazione, pertanto scopiazzato da tutti gli altri. Dall’inizio della guerra legale la Samsung però non ha fatto consolidare il suo primato mondiale nelle vendite di smartphone.
«Se Steve Jobs fosse ancora vivo, oggi dovrebbe stare in carcere?». La domanda la lancia il New York Times e non è neanche tanto provocatoria. Riassume in realtà un dibattito molto serio, in corso tra giuristi esperti di antitrust. Sia quando era vivo, ma ancora di più dopo la sua morte, il ruolo di Jobs è affiorato in una serie di inchieste e processi per azioni monopolistiche. Nel più recente, concluso pochi giorni fa col patteggiamento di Apple, Jobs in persona era stato il regista di un cartello oligopolistico ai danni dei suoi dipendenti: aveva promosso un’intesa di “non belligeranza” coi capi delle aziende hi-tech della Silicon Valley per impedire che ciascuna potesse assumere ingegneri informatici dalle altre (onde evitare gli aumenti di stipendi che sono il risultato di un mercato del lavoro concorrenziale). L’antitrust in America è una cosa seria, in linea di principio. «Jobs — scrive il New York Times — sembra non avere mai letto, oppure ha scelto di ignorare, il primo paragrafo della legge Sherman che recita così: ogni congiura tesa a limitare la concorrenza è illegale, chiunque se ne renda colpevole commette un reato penale punibile fino a tre anni di carcere». Il quotidiano cita il giurista Herbert Hovenkamp, docente all’Iowa College of Law: «Jobs era la personificazione del reato di antitrust. E’ sconcertante il livello di rischio a cui si espose». Un altro caso antitrust riguarda il cartello dei prezzi sugli e-book promosso dallo stesso Jobs, per il quale un giudice federale ha sancito che «Apple ebbe un ruolo centrale nella cospirazione». Poi c’è lo scandalo delle stock-option retrodatate. Che vede Jobs recidivo: usò lo stesso trucco sia quando era chief executive della Pixar sia alla Apple. Questa storia delle stock-option intacca anche quell’aureola “zen” di cui il carismatico innovatore amava circondarsi: dimostrò anche un notevole attaccamento al denaro. Le stock-option, opzioni per l’acquisto di azioni, sono una componente essenziale nelle remunerazioni dei top manager americani, spesso più consistente dello stipendio. Hanno dei vincoli, si possono “esercitare” (comprando azioni a un prezzo pre-definito e vantaggioso) solo dopo una certa data. Ebbene, le stock-option di Jobs furono spudoratamente retro-datate in modo che lui incassasse subito un guadagno netto di 20 milioni. Poiché in questo caso il danno viene inflitto alla società stessa e ai suoi azionisti, la vicenda è stata insabbiata da un’indagine interna dell’ufficio legale di Apple che ha assolto Jobs. Non senza avere ammesso falsificazioni nei verbali dei consigli d’amministrazione. Tutto questo getta una luce sinistra sull’imprenditore più carismatico della Silicon Valley. Una corrente apologetica è rappresentata da Brian Lam, esperto di tecnologia e fondatore del sito The Wirecutter, secondo il quale «Jobs non si piegava alle convenzioni, è la cultura delle imprese tecnologiche ». Se un genio innovativo è per forza un ribelle nato, allora l’infrazione alla legge diventa un fatto “culturale”? Meno indulgente è Walter Isaacson, l’autore della più autorevole biografia di Jobs: «Ha sempre pensato che le leggi fatte per le persone normali non dovevano applicarsi a lui». Anche nei piccoli dettagli della vita quotidiana: per esempio, è noto che Jobs usava un permesso irregolare per parcheggiare nei posti riservati ai disabili. I precedenti nella Silicon Valley sono innumerevoli: dai peccati veniali di Bill Gates (guida senza patente) all’arroganza di Larry Ellison (il chief executive di Oracle atterrava con rumorosi jet privati in piena notte quando l’aeroporto di San Diego era chiuso al traffico). Quello che colpisce nel caso di Jobs, è quanto lui si esponesse in prima persona come cervello e regista delle intese oligopolistiche. Fu lui a chiamare personalmente Eric Schmidt di Google per convincerlo di aderire all’intesa «non rubiamoci gli ingegneri tra noi altrimenti dobbiamo pagarli di più». Fu sempre Jobs in persona a contattare James Murdoch, il figlio di Rupert che dirigeva News Corp, per convincerlo a fissare insieme i prezzi dei libri digitali. Se fosse vivo, forse non sarebbe in carcere, di certo Jobs spenderebbe una buona parte del suo tempo a difendersi nei tribunali.
Federico Rampini, la Repubblica 4/5/2014