Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, Il Fatto Quotidiano 4/5/2014, 4 maggio 2014
“PASSACARTE E RAGIONIERI IL CINEMA ITALIANO È IN MANO LORO”
[Intervista a Michele Placido] –
Prima del come e del perché vennero i soldi: “Pagavano bene e con centomila lire a posa io e i miei amici mangiavamo al ristorante per settimane. Ci dicevamo allegri: ‘Andiamo a fare una marchetta per il cinema’ e recitavamo senza farci troppi scrupoli in film di tutti i generi. Io pensavo al teatro. Avevo esordito con Ronconi nel ’69 ne L’Orlando furioso e il set mi sembrava un diversivo. Un passaggio di tempo tra una tournée e l’altra. Prima di accettare chiedevo sempre chi fosse l’attrice. Baciare Ornella Muti o la Antonelli era molto più importante della trama”.
A quindici giorni dai sessantotto anni, Michele Placido ha smesso di dipanare la propria: “È una bellissima stagione che mi godo senza affanni, con la consapevolezza di andare verso la catastrofe finale”. Prepara un nuovo film da regista nella Puglia d’origine: “Si intitola La scelta è tratto da L’innesto di Pirandello e racconta la storia di una maternità difficile. Lo produco con mia moglie Federica perché esclusi il Mibac e la Lucky Red nessuno aveva voglia di darmi una mano” e si diverte ancora all’idea della lotta come all’epoca in cui, bambino, scelse le asprezze del collegio cattolico: “Mi facevo il letto da solo e se non rimboccavo bene le lenzuola arrivavano anche le botte”. Placido era pronto al sacerdozio: “Lo vedevo come una forma di oltremare. Un’avventura che si alimentava attraverso i racconti di uno zio missionario. Una fuga dalla famiglia e dal paese, Ascoli Satriano, nel foggiano, perché sognavo di più e con sette fratelli, chiedere attenzione in casa era illusorio”. Delle rigidità cattoliche: “Di una formazione con regole e liturgie molto più severe di qualsiasi servizio militare” Placido ricorda i silenzi. “In ritiro spirituale capitava di stare zitti per giorni. Allora leggevo. Studiavo le vite dei santi anche se a quelli con l’aureola, angelicati, non ho creduto mai. Mi appassionavo alle biografie umili, ai beati che mi sembravano alla mia altezza, ai San Gerardo Maiella che dormiva con i cani, ogni tanto cadeva in estasi davanti al forno ed era descritto più o meno come lo scemo del villaggio”.
Poi lasciò il collegio cattolico e arrivò a Roma.
Nella camerata di Pubblica Sicurezza di Castro Pretorio. Da poliziotto. Nel 1965. La divisa era il mio travestimento. Lo schermo da opporre alle domande di mio padre, geometra che per me avrebbe desiderato un futuro razionale. Non volevo dargli il dolore di andare allo sbaraglio. Così mi dividevo tra la caserma e il sogno di entrare all’Accademia d’Arte drammatica. Mi presentai al saggio finale portando Le mani sporche di Sartre. Ero vestito in modo improbabile. Metà agente di polizia, metà attore con velleità alternative. Gli feci tenerezza. Mi promossero.
Esordio al cinema con Carlo Di Palma in “Teresa la ladra”...
Un uomo delizioso. Il direttore della fotografia di Germi, Woody Allen, Antonioni e Monicelli. Di Mario sono stato molto amico. Mi considero monicelliano. Era il più lucido. Il più cinico. Il più spiritoso. Da qualche anno, da quando si era trasferito nel suo piccolo appartamento monacale affacciato sul Rione Monti, il droghiere lo scambiava regolarmente per Comencini. Lui lasciava correre. Ogni mattina, la stessa scena: ‘Buongiorno dottor Comencini, come va? Hanno dato il suo Incompreso l’altra notte. Bello, bellissimo , ci siamo commossi. Invece, le dico la verità, quel Monicelli una noia, due palle senza nome’.
Lei per Monicelli ha recitato in tre film.
La prima volta, in Romanzo popolare celebrammo il matrimonio per simpatia. Mario aveva saputo che ero stato in Polizia e mi spalancò le porte: ‘Prendete ‘sto ragazzo che ha fatto la gavetta più disgraziata di tutte’. Ancor più del suo cinema, amavo in lui il coraggio della provocazione. La grandezza di scorgere il lutto nella gioia. Non a caso, nei suoi film, non manca mai la morte.
Il suo suicidio l’ha colpita?
Ho rispettato la scelta anche se sul tema, il mio punto di riferimento è sempre mia madre. Ha 92 anni. E nella sua stupefacente semplicità di donna del Sud, nella sua visione cristiana in cui anche la sofferenza fisica è un dono di Dio, un simile finale non l’avrebbe mai neanche potuto immaginare. Mario aveva visto suo padre compiere lo stesso gesto. Siamo quello che diventiamo, ma anche il prodotto di ciò che abbiamo osservato.
Monicelli era del 1915. Aveva fatto in tempo a vedere entrambe le guerre mondiali del Novecento.
Era un grande narratore e aveva tanti mondi e tanti registri dentro di sé. Avrà attraversato il suo tormento con raziocinio non solo intellettuale. Tra i suoi lussi covava quello di non avere paura della verità. Sapeva ammettere gli sbagli, Mario. Una volta a cena fece un bilancio dell’età dell’oro. Dei decenni in cui, quasi mitologicamente, con spensieratezza, il cinema italiano era un modello di virtù. In via della Croce, ai tavoli di Otello o di Cesaretto potevi incontrare a qualsiasi ora Age, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi, Suso Cecchi D’Amico, Flaiano, Arbasino e Tonino Guerra. Oggi gli autori sono chiusi nel loro cortile. Non c’è più scambio, nessuna condivisione.
E il bilancio di Monicelli che sapore aveva?
Il sapore del rimpianto: ‘Abbiamo avuto un grande potere’ spiegava quella sera a tavola con Scola ‘e politicamente, a differenza di quanto è accaduto in Francia, non abbiamo saputo cosa farne’. Oggi il cinema italiano è in mano a persone che non hanno la necessaria cultura per fare cultura. Non sono né manager né poeti. Non sono un cazzo.
E cosa sono esattamente, Placido?
Passacarte. Ragionieri. Che lavorino per la Rai o per Mediaset cambia poco. Un tempo c’erano i Dino De Laurentiis, i Lombardo e i Cristaldi. Oggi al posto del produttore balla un’altra figura professionale. L’amministratore di condominio che alza gli occhi e apre la cassa solo se sente parlare di commedia. Quando arriva un maestro come Bellocchio si dedica ai conti della serva: ‘Ma se il suo film incassa un solo milione di euro che lo finanzio a fare?’.
Hanno torto?
Completamente. Tra l’altro mi pare che dopo la recente sbornia euforica la commedia sia in picchiata. Sono più quelle che vanno male di quelle che vanno bene.
Placido il polemico.
La verità in questo Paese è molto meno conveniente della menzogna. Meglio baloccarsi con le bugie. Le dicono un po’ tutti. Essere troppo schietti è controproducente e alla fine di qualsiasi ragionamento prevale il rumore di fondo. La stanchezza della gente. La noia. La diffidenza più radicata e forte di qualunque riflessione: “Quello è un gran rompicoglioni, lascialo perdere”.
Ha lasciato perdere anche lei?
Non mi appassiono più al duello dialettico perché mi rendo conto che la Storia è stata scritta in una certa direzione e anche se le ideologie sono saltate in aria e la geografia politica nella quale sono cresciuto, quella con fascisti, democristiani e comunisti è ormai preistoria, è inutile sperare che qualcuno metta in discussione le proprie convinzioni. Prevale l’appartenenza. La parrocchietta. La casella di riferimento. Quando ho partecipato a Il sangue dei vinti di Soavi, tratto dalla rilettura della Liberazione tentata da Giampaolo Pansa, mi hanno quasi linciato. Peccato, sarebbe stata l’occasione giusta per farsi qualche domanda.
Lei se le è poste?
Sono lieto che la Costituzione sia radicalmente antifascista, ma questo non mi impedisce di ascoltare le ragioni dei tanti Giorgio Albertazzi che scelsero di partire per Salò a 16 anni. Prima di giudicare bisognerebbe ragionare. Spesso il destino non dipende neanche da noi. Servono gli incontri e serve la fortuna. Del mondo militare e delle sue implicazioni repressive capii più con Bellocchio lavorando nel suo Marcia trionfale che nei tre anni in Polizia. Marco non aveva neanche quarant’anni e rispetto ai suoi coetanei sembrava un alieno. Possedeva intelletto e magnetismo che nonostante i trascorsi nei salesiani metteva al servizio di una laicità impressionante. Era parco, concentrato, serio. Non si chiedeva mai dove sarebbe andato a cena la sera.
In “Marcia trionfale”, in forma latente, c’è già il tema dell’omosessualità che in “Ernesto” di Salvatore Samperi lega il protagonista a un facchino da lei interpretato.
Umberto Saba mi affascinava e così accettai l’ingaggio. Al Festival di Berlino, Ernesto andò benissimo. Fassbinder mi premiò come miglior attore e tornammo a Roma felici e speranzosi. In sala, alla prima, si spensero le luci e io assistetti al primo esodo della mia vita. Ogni cinque minuti si alzava qualcuno alla disperata ricerca dell’uscita. Il cinema rimase vuoto. Il film, purtroppo, non fece una lira. Avevano proposto la parte a Giuliano Gemma e a Franco Nero, ma quel ruolo non voleva farlo nessuno. Quella sera capii perché.
Qualche anno dopo arrivò il commissario Cattani.
Anche La Piovra fu un puro caso. In Rai mi avevano bocciato: ‘Non ha il fisico, ha la voce stridula, non funziona, nessuno crederà che sia un vero poliziotto’. Il regista, Damiano Damiani, mi venne a cercare e mi convinse mentre recitavo con Strehler ne La tempesta. Il successo fu immediato. Non potevo andare neanche più a fare benzina. In teatro, i miei colleghi che snobbavano la televisione erano sconvolti. Eravamo in scena con Metti una sera a cena di Patroni Griffi. Un cast della Madonna: Florinda Bolkan, Bentivoglio, Remo Girone che poi, a partire da La Piovra 2, ebbe un ruolo importante nella serie. Ogni sera, all’applauso finale, quando facevo capolino in teatro si scatenava l’ovazione.
Qualcuno lamentò il danno all’immagine dell’Italia.
Gli imbecilli sono ovunque, ma La Piovra riuscì a far breccia in un immaginario vastissimo, molto distante dalla letteratura pure meravigliosa di Sciascia o dal giornalismo a schiena dritta di De Mauro. De Concini, Rulli e Petraglia spiegarono a qualche milione di persone i meccanismi della mafia. A me poi La Piovra ha salvato letteralmente la pelle.
Perché?
Stavamo girando Afghan Breakdown in Tagikistan. Una notte Dushanbe, la capitale, si ritrovò in piena guerra civile. I musulmani si erano ribellati al comunismo e in città si era scatenato l’inferno. Venimmo svegliati all’improvviso ed evacuati in tutta fretta verso l’aeroporto con i carri armati. C’erano spari, vittime e scontri a fuoco. A un certo punto per la tensione e per il caldo mi sentii svenire e chiesi urlando di affacciarmi dal blindato. Eravamo in una piazza piena di gente, appena mi videro apparire dall’alto, i manifestanti si fermarono e iniziarono i cori: ‘Cattania! Cattania!’. Un delirio nel delirio.
Avevano riconosciuto il commissario che lei aveva interpretato?
Nei lunghi mesi di preparazione in Tagikistan avevo fraternizzato con i ‘cattivi’, diviso pranzo e cena con i rivoltosi, frequentato le tantissime comparse musulmane del film che poi in gran numero, seppi in seguito, si arruolarono con i talebani. Furono loro a darci il nullaosta per fuggire. Provai un fottuto terrore quella notte, lo giuro sui miei figli.
Lei ne ha cinque.
Le donne che ho avuto mi presentavano il conto. Non pianificavo. Non pensavo mai: ‘Adesso facciamo un figlio’. Forse solo Violante è stata veramente cercata. Voluta.
Qualcuno ha seguito il suo percorso.
Pur non essendo mai intervenuto nelle loro scelte ho sempre tentato di scoraggiarli.
Sua moglie, Federica Vincenti, è molto più giovane di lei.
Senza nulla togliere alle altre, è la persona più matura con cui sia stato in vita mia. Ha la saggezza che io non ho. È pragmatica e determinata, sia quando recita che nella vita. Produciamo teatro e cinema, ci divertiamo molto. Ogni tanto litighiamo, penso sia normale.
Tornando a “La Piovra”, nel 2014 si celebrano anche i trent’anni del format.
Presto andrò a Mosca dove mi hanno invitato per l’evento. All’epoca credevo che mi sarei fermato alla prima serie e lo promisi anche a Damiani. Un giorno mi telefonò allarmato: ‘Per fare la seconda serie ti offriranno più soldi, lo so, ma ti consiglio di rinunciare’.
E lei cosa rispose?
Essendo per principio fedele alle amicizie lo rassicurai: ‘Non lo faccio Damiano, stai tranquillo’. Poi però del progetto si occupò Florestano Vancini. Aveva una sua storia di autore impegnato sul fronte civile. Damiani me lo perdonò a fatica. Ci volle tempo. Poi tornammo a lavorare insieme in Pizza Connection.
Lei vinse un Nastro d’argento, ma con il film la critica non fu tenera.
Sono un istintivo, se leggo una critica rimango male e non di rado mi incazzo. Però non ho mai fatto una telefonata né scritto una lettera per lamentarmi in oltre 40 anni di carriera.
Al Festival di Venezia però si arrabbiò con i giornalisti.
Venezia è una fossa dei leoni. Una gogna in cui per anni, indistintamente, si è data la caccia ai prodotti Rai e Mediaset. In platea vedevano il nome degli attori e iniziavano a fischiare ancor prima di aver visto il film.
Accadde con “Ovunque sei” e poi con “Il grande sogno”.
Lì mi arrabbiai. E lo dissi chiaramente: ‘Faccio film con la Rai e mi criticate, li faccio con Medusa e mi aggredite. Mi spiegate con chi cazzo devo farli io i film?’.
Disse anche che non aveva mai votato per Berlusconi.
Me lo rimproverarono in tanti. Quasi fosse un manifesto di conclamata ingratitudine. In quell’occasione discussi animatamente anche con il produttore del film, Pietro Valsecchi. Anche se non lavoriamo più insieme siamo amici da sempre. Pietro ha un intuito formidabile ed è molto colto. Ma al di là del pessimo carattere ha un difetto.
Quale?
Non si spende a sufficienza per una poetica alla quale pure, ha contribuito attivamente. Che inventi e crei un fenomeno come Checco Zalone va benissimo, ma Valsecchi 20 anni fa è stato anche il costruttore coraggioso del mio film su Giorgio Ambrosoli. Se solo volesse, potrebbe farlo ancora. Immaginare e realizzare altri lavori come Un eroe borghese. Creare un’altra stagione di cinema civile. Lui è più in gamba di quel che fa. Anche se Nanni Moretti, quando ci vedeva arrivare in motorino insieme, con una certa puzza sotto il naso, magari sorridendo, amava darci dei cialtroni.
Lei con Satta Flores, Bucci ed Enzo Gallo ha coprodotto uno storico film di Moretti.
Ecce Bombo. A dire la verità, anche se lui non l’ha mai raccontato, Nanni venne a propormi di fare il protagonista di Io sono un autarchico. Mio zio Beniamino, critico e attore nei suoi cortometraggi, me lo aveva sentitamente raccomandato. Ma io lo snobbai. Per fortuna. Altrimenti non avremmo avuto il Moretti attore.
Le piace?
Molto. Ultimamente più come attore e produttore che come regista. Mi pare che artisticamente sia in un momento di stasi creativa. Capita a tutti, me compreso. Poi però Nanni ha rigore. Apprezzo il suo desiderio di mettersi comunque in gioco e di fare da sempre quel che più gli piace. Come Tognazzi. Un uomo libero. Generoso. L’attore a cui ho voluto più bene in assoluto.
Ricordi?
A volte, ed è strano, drammatici. Ugo era afflitto dall’ipotesi di invecchiare. Una volta partimmo in macchina da Roma alla volta di Milano. Si tolse le scarpe a metà viaggio e provò a rimettersele all’arrivo. Gli si erano gonfiati i piedi e non entravano più. Iniziò a disperarsi. Piangeva quasi: ‘Che cosa terribile l’età, guarda, non mi si allacciano, sto andando in pezzi’. In realtà insieme ci siamo anche divertiti tanto. Poco prima del Festival di Venezia, ogni anno, Tognazzi riuniva gli amici a Torvaianica. Si era inventato un premio, ‘Lo scolapasta d’oro’, un pretesto per gozzovigliare tra tennis e cucina per tre giorni e tre notti.
Erano giorni lieti?
Emozionanti. Facevamo l’alba con Gassman, Ferreri, Villaggio accanto all’ultimo degli sfigati. Con gente simpatica e con gente così antipatica da rivelarsi di straordinaria simpatia. Da lì passavano tutti. Tognazzi apriva la casa a chiunque, sapeva godersela. Non credo che Nanni Moretti, tanto per dire un nome, avrebbe nutrito la stessa passione antropologica e festosa per la compagnia.
Tognazzi adorava cucinare.
Veniva dal varietà. Dalle difficoltà economiche del dopoguerra. Dalle pensioni in cui si metteva un sugo sul fornelletto ai piedi del letto e magari, per convincere all’amore notturno una soubrette, le si cucinava prima un risottino. Ogni tanto Ugo esagerava con gli ingredienti e questi famosi pranzi di cui favoleggiava vantandosi senza ritegno si rivelavano veleno puro.
Con le sue memorie, se volesse, potrebbe scrivere un’autobiografia non banale.
Per aggiungere al disboscamento del pianeta anche la mia colpa? Me lo dicono spesso: ‘Perché non scrivi un libro? Che ti ci vuole?’. Ho una sola certezza. Non succederà mai. N
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, Il Fatto Quotidiano 4/5/2014