Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano 4/5/2014, 4 maggio 2014
GIOVANNI SARTORI: “IL SALTO CON GLI SCI, KANT PER SONNIFERO E LA ZUPPA IN SCATOLA”
[Intervista] –
Nel suo diario Cesare Pavese annota: “La politica è l’arte del possibile. Tutta la vita è politica”. Una frase - vien da pensare sulla porta di casa di Giovanni Sartori - che si adatta benissimo al professore in procinto di compiere novant’anni. Apre la porta Isabella Gherardi, artista e (innamoratissima) moglie di Sartori: difficile dire se in queste stanze inondate dalla luce del pomeriggio ci siamo più libri (del prof) o quadri (di Isabella). Ed è lei che suggerisce il primo aneddoto di una lunga serie: il giovane Vanni faceva l’allenatore di salto sugli sci all’Abetone. “Io non andavo mai alle adunate. Pertanto fui convocato dalla commissione disciplinare del Pnf da un signore piemontese di nobili casati. Mi chiese perché non mi presentavo mai alle riunioni. Raggiungemmo quest’accordo: io non andavo alle adunate perché allenavo la squadra di sci. Ero uno slalomista, ma tra le specialità c’era anche il salto sugli sci: così portavo dei contadinotti sopra il trampolino e quasi dovevo dar loro un calcio per convincerli a buttarsi. Quasi tutti, ahimè, finivano all’ospedale”.
E prosegue così: “All’inizio del ’43 avrei dovuto essere reclutato, ma la mia chiamata alle armi avvenne solo nell’ottobre, quando era già stata proclamata la Repubblica di Salò, alla quale certo io non mi volevo unire. Prima mi sono chiuso in una villa nella campagna attorno a Firenze, poi i tedeschi cominciarono a rastrellare anche da quelle parti. Una notte scappai per i prati: feci una lunga camminata fino alla città e mi chiusi in una stanza della casa dei miei nonni. La pena per i disertori era la fucilazione, ma anche chi nascondeva un disertore rischiava la vita. Per parecchi mesi restai rintanato lì, senza nemmeno affacciarmi alla finestra, finché Firenze non venne liberata dall’occupazione tedesca nell’agosto ’44. Che potevo fare tutto il giorno? Leggere. Mi misi a leggere Hegel, Kant, Croce e Gentile. Siccome erano quasi tutti autori difficili e noiosi, di notte dormivo alla grande. Dopo, scrissi che da Kant a Hegel si passa dalla fotografia alla cinematografia del pensiero. Il bello di Hegel è che era quasi indecifrabile: quando finalmente pubblicarono le sue annotazioni capimmo che le interpretazioni del suo pensiero erano quasi tutte sbagliate”.
Poi la guerra finì.
Mi laureai in gran fretta in Scienze politiche e sociali, nel 1946, con una tesi sulla scuola storica del diritto. In quella seconda metà degli anni Quaranta, l’università era quasi un deserto: moltissimi professori erano sotto inchiesta per collaborazione con il fascismo. Erano la maggioranza, visto che avevano rifiutato di giurare solo in dodici. L’università fu portata avanti dai più giovani, come Giorgio La Pira.
Eravate amici con La Pira?
Era un tipo spassoso, ridevo molto con lui. Parlava velocissimo e lo capivo a stento. Una volta intervenne a un convegno organizzato dalla Ceca, la comunità europea del carbone e dell’acciaio: alla fine andai a dirgli che grazie al traduttore francese avevo finalmente capito un suo discorso! Sarà stato anche un santo, ma certo un santo furbo... Vedi la sceneggiata dei suoi mantelli: quando era sindaco e d’inverno vedeva un povero, si toglieva il suo tabarro e glielo dava. Pochi sanno però che era il Comune che li ordinava e li pagava. Una volta penetrai nella sua cella, bella tra l’altro, al Convento di San Marco: mi serviva un libro della biblioteca che risultava in prestito a lui da anni. Non comprava libri, né li restituiva mai. Forse era un sant’uomo ma anche un po’ imbroglione. Entrò nella prima tornata di concorsi universitari dopo la guerra, quando era facile, ma di Diritto romano, la sua materia, ne sapeva poco. Anch’io ero a volte in commissione di esami con lui: come dicevo, di professori ce n’eran pochi. Ricordo che l’interrogazione si svolgeva così: La Pira faceva una domanda, il candidato rispondeva spesso sbagliando (e lui pure). Allora Cugia, l’altro ordinario di Diritto romano, gli diceva : “No La Pira, le cose non stanno così”. Fece anche fallire la clinica Palumbo: a forza di fare il francescano, senza calze e con i sandali, s’ammalò. E si fece ricoverare nella clinica del professor Palumbo dove si fece sistemare all’ultimo piano, che occupò completamente attorniato da suore e suoricelle. Non se andò mai, la clinica fallì.
Torniamo al giovane Sartori.
Ero considerato un enfant prodige e diventai subito assistente di Pompeo Biondi, che insegnava Teoria generale dello Stato: un uomo intelligente, davvero brillante. Però non c’era quasi mai e i corsi li tenevo io al suo posto. Si nascondeva anche in campagna a un certo punto perché scappò con la moglie del suo migliore amico, il quale disse che lo avrebbe ammazzato: e lui si guardò bene dal farsi vedere all’Università. Ad un consiglio di Facoltà del 1950 il preside, Giuseppe Maranini, propose un giovane promettente: Giovanni Spadolini, che all’epoca aveva 25 anni. E promettente lo era davvero: sarebbe diventato direttore del Corriere della Sera, presidente del Consiglio, presidente del Senato, mancando di un soffio la presidenza della Repubblica. Maranini lo definì "un genio" e siccome Pompeo Biondi non poteva essere da meno, decise di lanciare me come suo "contro-genio". Il compromesso fu “tutti e due” - sia Spadolini sia Sartori - e così venni nominato di punto in bianco "professore incaricato". Solo il giorno successivo venni a sapere che avrei dovuto insegnare Storia della filosofia, cosa che poi feci per sei anni, fino al ’56. Da allora, ho sempre creduto che la fortuna e il caso contino moltissimo nella vita, non meno della virtù.
E la Scienza politica quando arriva?
Mi ostinai a volere una cattedra di Scienza politica che non esisteva negli statuti delle Università. Ebbi vita dura. Bisognava rivolgersi al Consiglio superiore dell’istruzione e allora l’incaricato del ministero era Carlo Antoni: crociano, uomo di grande cultura ma timidissimo. Purtroppo gli erano note le mie opinioni critiche su Croce e dunque andai da Antoni tremebondo, sapendo che dovevo strappare da un crociano l’assenso per una materia che secondo Croce non esisteva. Me la cavai così: “Lei professore insegna filosofia della Storia, materia che secondo Croce non esiste. Potrebbe consentire anche a me d’insegnare un’altra materia che non esiste, la Scienza politica?”. L’argomento lo convinse e così in Italia fu istituita la cattedra di Scienza politica.
E’ stato preside negli anni della contestazione studentesca.
Sì, me lo chiesero i colleghi, sapendo che ero un combattente. Misi un paio di condizioni: cioè che gli altri insegnanti mi avrebbero dovuto sostenere senza defezioni e che io sarei stato l’unico a intervenire alle assemblee degli studenti. Era un mestiere ingrato, nessuno lo voleva fare. Qualche volta dormii anche in facoltà. Quando scoprii che gli studenti facevano telefonate addirittura in Cina tolsi il telefono, d’inverno staccai anche il riscaldamento: tutti i rivoluzionari sparirono in un secondo. Non feci mai entrare la polizia, ma la tenevo sempre fuori dalla porta.
Gli studenti non l’avranno amata molto...
La peggiore ingiuria contro di me fu "Giovanni Sartori come Monaldo Leopardi". Non me l’ero cavata male... Li fregai perché dissi loro: "Io sono il primo insegnate di Scienza politica in Italia, se perdo distruggo la mia materia". Tutti i professori facevano lezione regolarmente e misi regole alle assemblee. Alla fine indissi un referendum tra gli studenti, il quesito era: "Volete fare regolarmente lezione?". Vinse trionfalmente il sì e la contestazione da me finì. Fu così che non ancora quarantenne vinsi una medaglia d’oro per i benemeriti della scuola e della cultura, un’onorificenza da professore ottuagenario...
Quegli anni, "formidabili", sono stati mitizzati. Eppure il 68 ha fatto danni incalcolabili all’Università: è d’accordo?
L’ha distrutta. I sessantottini si dividono tra gli imbecilli che sono rimasti tali e i furbacchioni che hanno fatto carriera dimenticando il loro passato.
Com’è arrivato in America?
Erano gli anni Settanta. Mi arrivarono due offerte in contemporanea: una da Oxford e una da Stanford. Sarei andato volentieri in Inghilterra, ma la proposta economica degli americani era molto più alta. Ero già stato negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, perché avevo vinto una borsa di studio. C’ero andato in Transatlantico da Genova, sul Saturnia. Incappammo in una tempesta terribile, tanto che la nave arrivò con un giorno di ritardo. E non era un pattino, pesava ventinovemila tonnellate! Tutti vomitavamo, a parte me e un altro signore che incontravo quando uscivo sul ponte a prendere un po’ d’aria, nonostante l’uragano. Quel signore era Salvador Dalì.
Poi ci è tornato, in aereo.
Certo. A Stanford sono stato tre anni. Avevo una casa stupenda, a Palo Alto, con una piscina quasi olimpionica. Al mattino mi svegliavo e mi facevo subito un bagno. In tre anni ho sentito solo una volta piovere, di notte. Poi la Columbia mi fece un’offerta che, come avrebbe detto il Padrino, non si poteva rifiutare. Era la più importante cattedra di New York, mi triplicavano lo stipendio e avevo anche una segretaria personale. Così divenni Albert Schweitzer professor in the Humanities alla Columbia University, dove dal 1994 sono professore emerito. Era, naturalmente, un posto molto ambito.
Quando si dice trovare l’America...Chi incontrò in quegli anni?
Ronald Reagan l’ho conosciuto bene dopo i suoi due mandati da governatore della California, quando già si sapeva che aveva intenzione di correre per la Casa Bianca. Era, come me, fellow dell’Hoover Institution di Stanford. L’ho visto spesso in accese discussioni con gli studenti, che ovunque, anche in America, sono di sinistra. E lo attaccavano duramente durante le conferenze. Ma lui era bravissimo, affrontava il fuoco e li scornava dati alla mano. Ci trovavamo spesso a pranzo: un piacevole conversatore. Quando mi chiedevano di lui dicevo: "E’ molto simpatico, peccato che sia già arteriosclerotico". Sapeva tutto della California, ma se andava in Nevada era già perduto. Neanche a farlo apposta diventò presidente: sono andato spesso a trovarlo a Washington. Vorrei dire in sua difesa che aveva un formidabile istinto politico. A Stanford c’era anche Edward Teller, uno degli inventori della bomba atomica, padre dello scudo spaziale, l’uomo che riuscì a convincere Reagan - e pure i sovietici - che l’America avrebbe potuto difendersi da attacchi di missili balistici con testate nucleari. In sostanza la guerra fredda finì grazie a una balla di Teller e alla credulità di Reagan.
Altri amici americani?
Oriana Fallaci, una donna terribilmente nevrotica ma di grande talento. La conoscevo da quando aveva 16 anni, siamo stati amici tutta la vita: credo che solo con me non abbia mai litigato. A New York andavo spesso a cena da lei, che era una bravissima cuoca. Una volta nel suo salotto m’avvicinai alla macchina da scrivere e lei mi aggredì urlando: "Mi rubi le idee". Sull’uscio del suo ufficio, sulla 57esima strada, c’era un cartello con scritto "Go away". Quando si ammalò la convinsi ad andare allo Sloan Kettering, il centro più importante del mondo per la cura del cancro. La portai io: all’ingresso, la segretaria le diede un modulo ma lei si rifiutò di compilarlo. Mi disse: "Io sono Oriana Fallaci, non riempio questionari". Cosa che ribadì anche al medico, che naturalmente la mandò via. Al Kettering ci è tornata due anni dopo, ma era troppo tardi.
Lei è rientrato in Italia nel ’94, un periodo di grandi cambiamenti politici.
Compivo settant’anni e il mio mandato di insegnamento terminava. Ma ho continuato a lungo a fare la spola con New York. Tornato qui, per un certo periodo ho avuto rapporti stretti con D’Alema. Un uomo intelligentissimo, anche se politicamente non ne ha vinta una: è un dato di fatto. Ha il difetto di essere un complottista. Ero riuscito a convincerlo che il sistema migliore era quello francese. Lui mi disse: "Va bene professore, la autorizzo a sondare i partiti a mio nome". E io lo feci: erano tutti d’accordo.
Andò anche da Berlusconi? E’ riuscito a dare del comunista perfino a lei.
Sì andai, obtorto collo, anche da lui. M’invitò a cena, con una ventina di persone, incluso il mio allievo Giuliano Urbani, e mi regalò anche una bottiglia di liquore. Berlusconi è come un incantatore di serpenti: e se il serpente obbedisce, bene. Altrimenti lui lo cancella. Comunque alla fine mi disse: "Può riferire a D’Alema che sono d’accordo". Il giorno dopo mi precipitai da D’Alema e gli consigliai di cogliere al volo l’occasione, perché Berlusconi poteva cambiare idea da un momento all’altro. Però era successo qualcosa: D’Alema era stato poco prima in Israele e gli piaceva il modello di premierato forte di quel Paese. Mi disse : "Si occupi dei suoi studi, alla politica ci penso io". Per parecchi anni non ci siamo rivisti. Poi ho ricevuto la laurea ad honorem a Urbino. Lui era tra i relatori e fu molto bravo e simpatico. Sulla Bicamerale voglio dire una cosa, perché ora se ne danno versioni sbagliate. Non la fece saltare D’Alema, ma Berlusconi al quale premeva soltanto una garanzia di immunità giudiziaria.
Parlando con Gad Lerner, di Renzi lei ha detto: "E’ un peso piuma malato di velocismo. Vende velocità che non può rispettare. Sono cose che incantano il pubblico: un mese faccio questo, un mese faccio quello. Fa ridere, io ho molti dubbi. L’uomo è molto contento di se stesso e questo gli dà forza, ma temo che si sgonfierà rapidamente nel fare".
Guardi, il giovanilismo nella Storia non ha mai pagato. E’ sempre servita una giusta di miscela di esperienza e innovazione, di vecchi e giovani. Renzi ha messo su un governo con gente assolutamente incompetente. Lo dico perché di certe materie me ne intendo.
Siete entrambi fiorentini: lo conosce?
Un giorno andai a ritirare un premio a Firenze, in una trattoria storica che ogni anno regala un prosciutto. Appena entrato mi si fece incontro un signore che non conoscevo, insieme a un sacco di fotografi: mi baciò per le telecamere e senza presentarsi se ne andò. Era il candidato sindaco Matteo Renzi: non l’ho mai più rivisto.
Invece conosce bene il presidente Napolitano.
E’ stato il più riformista del Pci, il loro capo migliorista. L’ho conosciuto quando venne in America; allora fu bravissimo. Sono stato al Quirinale a pranzo da lui poco tempo fa. Il punto è che fa una vita faticosissima ed è molto invecchiato. Ormai ha la rigidità delle persone anziane e lo dico da coetaneo. Sono dispiaciuto perché lui ha bocciato il sistema francese: è un vecchio parlamentarista.
E’ uno dei più longevi editorialisti del Corriere della Sera.
Iniziai a collaborare con Spadolini, alla fine degli Anni Sessanta. Nel ventennio americano però di fatto non ho mai scritto: ho ricominciato quando sono rientrato. Tutte le volte che cambiava il direttore, mandavo una lettera di dimissioni: un editorialista deve avere la fiducia del direttore. Mi è sempre stata respinta, anche da Piero Ottone, il direttore che venne dopo Spadolini. Allora eravamo molto lontani. Oggi, leggendolo, vedo con piacere che ci siamo molto avvicinati.
L’ultima è una domanda personale: si è sposato da pochi mesi. Ci racconta come ha fatto a conquistare sua moglie Isabella? Vi siete sposati da poco e lei è molto più giovane.
Ah no, io a questo non rispondo. Ma al suo posto la fa Isabella: Ci siamo conosciuti negli anni Novanta a una festa: io rimasi colpitissima da lui, ma non fu reciproco. Poi tre anni fa andai a un convegno perché dovevo fare delle foto a Philippe Daverio per Il Corriere fiorentino. C’era anche Giovanni e finalmente ci presentarono. Cominciammo a parlare. All’uscita pioveva, io avevo un ombrello grandissimo, sotto ci poteva stare un’intera famiglia islamica. Lui mi disse: "Perbacco che bell’ombrello". Gli lasciai il numero di telefono sperando che mi richiamasse, ma non lo fece. Scoprii dopo che gli avevano rubato l’agenda... Per fortuna mi feci viva io. E pochi mesi dopo, con una scusa, lo andai a trovare a New York. Anche lì pioveva a dirotto. Per l’agitazione di ricevermi gli venne la febbre a 38, per cena mi offrì una zuppa di pomodoro in scatola, marca “Progreso” . Ma fu una delle più belle cene della mia vita.
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Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano 4/5/2014