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 2014  maggio 03 Sabato calendario

“AMO LA BATTAGLIA ANCHE CONTRO LE SETTE SORELLE”

[Intervista a Enrico Mattei] –

Mattei perché ha voluto fare il nostro incontro dall’alto del grattacielo di Metanopoli?
Biagi così comprenderà meglio le mie parole. Questa è la pianura lombarda: 300 ettari sono nostri. Ho cominciato pagando il terreno 460 lire al metro, senza dire nulla a nessuno, non volevo correre rischi. Adesso ne vale 50 mila. E tutto quello che vi è stato costruito sopra non ci costa niente.
Ho letto che lo Stato a lei avrebbe concesso quello che mai avrebbe dato a nessun altro, né tantomeno ai privati, è vero?
No, non è vero. All’inizio lo Stato ci ha dato una società in perdita e non ci ha concesso grandi privilegi. L’Eni è stata costituita con 30 miliardi, 15 li ha messi lo Stato e 15 sono arrivati dalle società che allora erano già attive. Quello che ha creato malumore è che la concessione della Pianura Padana è stata data in esclusiva, ma era piccola rispetto a quelle che erano state divise tra altre compagnie. Da allora non abbiamo più avuti finanziamenti e ci siamo dovuti rivolgere agli istituti di credito. La differenza con le imprese private è che se a loro un anno va male possono non pagare i profitti, noi, invece, dobbiamo pagare gli interessi e rimborsare le quote di credito. Tutti gli interventi che abbiamo fatto li abbiamo pagati noi.
Come inizia la sua storia di imprenditore?
Sono nato in una terra poverissima delle Marche, Acqualagna, primo di cinque figli; poi mio padre, che era maresciallo dei carabinieri, fu trasferito a Matelica, un paese vicino a Macerata, andammo lì a vivere. Non avevo voglia di studiare, mi piaceva solo la matematica. Da ragazzo scappai a Roma con un amico: volevamo tentare l’avventura del cinema, ma tornammo subito a casa. Ho cominciato a lavorare che avevo 15 anni come fattorino, ho fatto l’operaio in una fabbrica di letti poi passai alla Conceria Fiore, dove a 19 anni divenni direttore: avevo alle mie dipendenze 150 operai. Decisi di andare a Milano, trovai lavoro come rappresentante presso una ditta di vernici, poi mi misi in proprio ed ebbi un certo successo.
Come arrivò all’Agip?
Entrai all’Agip nel 1945. Alla fine della guerra fui nominato Commissario delle concessioni di ricerca petrolifera in Lombardia perché conoscevo bene l’area, avevo tutte le informazioni, datemi dai tecnici, sulla zona di Lodi, esattamente a Caviaga dove era stato scoperto nel ’44 un giacimento di gas metano, ma poi era stato chiuso perché non cadesse in mani tedesche. A nominarmi fu il Comitato economico del Cnl presieduto da Cesare Merzagora che aveva il compito di risolvere i problemi di un’economia che passava dalla guerra alla pace, con tutte le limitazioni che derivavano dagli alleati. L’incarico che ricevetti era quello di liquidare tutte le concessioni che erano considerate parassitarie, come era scritto nel protocollo del 15 maggio 1945 con il quale il ministro del Tesoro, Solieri, ordinò di liquidare l’Agip, ma io non ero d’accordo.
Cosa accadde?
Ero stato nominato a maggio e il 21 giugno Ferruccio Parri diventò presidente del Consiglio, così decisi di andarlo a trovare a Roma. C’eravamo conosciuti quando era a capo del Comitato nazionale di liberazione e io rappresentavo nel Cnl le formazioni partigiane cattoliche. L’ultima volta che lo avevo incontrato era stato nei giorni della Liberazione. Mi ricordo che era rimasto colpito dal fatto che io ero stato arrestato dal famigerato commissario Saletta, peggio dei nazisti, e rinchiuso nel carcere di Como e, grazie all’aiuto di una guardia, ero riuscito a evadere. Entrammo insieme a Milano il 25 aprile con Luigi Longo e Raffaele Cadorna. Avevo bisogno di avere appoggi al di fuori della Lombardia. Convinsi Parri che il giacimento di Caviaga, secondo le mie informazioni, era enorme e questi ritrovamenti sarebbero stati fondamentali per il nostro futuro. Se avessimo chiuso tutto o svenduto, ci saremmo assunti una grande responsabilità nei confronti del paese. L’Italia poteva risollevarsi dalle tragedie della guerra solo attraverso una forte politica che portasse all’indipendenza energetica. Il presidente si fidò delle mie parole, mi fece incontrare Dalmatti che era sia il commissario generale dell’Agip sia il controllore di tutte le piattaforme degli alleati in Italia.
Co m ’era allora il rapporto con gli alleati?
Io ero a conoscenza dei loro interessi, avevo con loro contatti, ma nonostante l’armistizio ci trattavano come un paese sconfitto. Anche per questo non potevamo lasciare in mano loro il nostro bene comune.
L’hanno accusata di aprire strade di notte per inserire tubazioni, senza averne i permessi, è vero?
Sì, qualche volte l’abbiamo fatto, ma nel racconto c’è molta fantasia. Quando è accaduto lo scopo era di superare la burocrazia che ci impediva il progresso e ci strangolava. Immagino che lei si riferisca a quando, a Cremona, presi 300 terrazzieri e di notte andammo a scavare il tracciato. Se io fossi stato ubbidiente e supino alle autorità non sarei riuscito a fare quello che ho fatto, soprattutto all’inizio.
Conseguenze?
Nessuna. Ero deputato e non potevano mettermi in prigione.
C’erano leggi da rispettare e lei non lo avrebbe fatto, anche questo c’è stato chi gliel’ha contestato.
Biagi, io ho sempre rispettato le leggi. Ho approfittato che tutto stava cambiando, stiamo parlando del dopoguerra, ha presente com’era l’Italia allora?
Certamente.
Tutto era vecchio e il progresso imponeva nuove disposizioni. Ho semplicemente anticipato i tempi. L’Italia non doveva essere condannata all’eterna miseria. Ho sempre creduto che il patrimonio della Resistenza dovesse essere alla base della coscienza civile.
Mattei, lei non solo ha costruito l’Eni, ma anche un’intera città.
La forza del nostro paese è data dalla gente: questa è la nostra ricchezza e noi dobbiamo valorizzarla, non farla andare all’estero. Dobbiamo costruire lavoro e poi esportare quello che i nostri operai sono capaci di costruire con grande professionalità. Ciò serve a preparare le nuove generazioni nella speranza che non debbano mai vivere la dolorosa esperienza della guerra come abbiamo vissuto noi. Qui a San Donato Milanese gli operai hanno a disposizione case con tre camere e il bagno, come gli impiegati, e campi da tennis, piscine, stadio, chiesa, e c’è anche un piccolo zoo per i bambini. Qui siamo tutti uguali e quando il lavoro è finito tutti debbono potersi mettere una camicia bianca, esattamente come faccio io. Per me la camicia bianca è stata una conquista, non ho mai dimenticato la mia giovinezza, che è stata dura, nel paese delle Marche dove vivevo, la differenza sociale la si vedeva anche alla messa della domenica tra chi portava la camicia bianca e chi no. Sono convito che bisogna dare un posto di lavoro a tutti, questo è il mio obiettivo.
Lei è molto cattolico.
È stata mia madre, molto religiosa, a darmi un’educazione cattolica. A lei devo il mio carattere. Da mio padre, che aveva arrestato il brigante Musolino, ho imparato che nella vita bisogna avere pazienza, molta pazienza, perché le cose riescano. Ho sempre con me nel portafogli il santino della Beata Mattia che si venera nel monastero delle suore clarisse di Matelica dove ho vissuto da ragazzo.
Hanno detto di lei che è un socialista cristiano. Lei come si definisce?
Sono un nazionalista, un imprenditore al servizio dello Stato.
Chi ammira di più?
Tra i privati stimo molto il presidente della Fiat Vittorio Valletta. È l’unico che ha capito che questo è il mondo della velocità.
Quando capì che avrebbe avuto ragione a insistere quel giorno con il presidente Parri?
Nel 1946 quando a Caviaga si sprigionò la prima nube, avevamo trovato un gas metano con una spinta di 150 atmosfere. Capii che possedevamo uno strumento potente e che avevo avuto ragione a non cedere alla Edison, per 60 milioni, gli impianti e gli studi di ricerca.
Con quale strategia si è avvicinato al mercato governato dalle grandi compagnie?
Una volta ero un bravo cacciatore poi, invecchiando, si diventa meno crudeli: non posso pensare di sparare a un animale. Allora andavamo a caccia di pernici. Partivamo all’alba per tornare alla sera, avevo due cani: un bracco tedesco e un setter. Una sera, sfiniti e affamati, ritornammo al casolare, che era il nostro punto di riferimento. Per prima cosa preparai un grande mastello di zuppa per i cani che sarebbe bastata per dodici, e mentre mi stavo togliendo gli stivali guardavo i due animali con la testa infilata nel mastello che mangiavano con grande voracità. Sentii miagolare un gattino piccolo , striminzito, dei contadini che vivevano nel casolare. Uno di quei gattini che mangiano quando possono: si vedeva che aveva una grande paura dei cani, ma anche una grande fame. Piano piano si avvicinò al mastello e appoggiò una zampina sull’orlo, il bracco, con una zampata lo allontanò facendolo sbattere contro la parete e spaccandogli la spina dorsale. Il gattino dopo pochi minuti morì. Quella scena mi fece una grande impressione e non l’ho mai dimenticata. Biagi, per i primi anni noi siamo stati quel gattino, abbiamo avuto a che fare con interessi mostruosi. Il nostro obiettivo è stato quello di cercare di rafforzarci e di evitare di farci colpire dal bracco tedesco.
Com’è il rapporto tra l’Eni e le grandi compagnie, quelle che lei ha chiamato le “Sette sorelle”, che dominano la produzione petrolifera mondiale?
Le “Sette sorelle” erano abituate a considerare i mercati di consumo come riserva di caccia, imponendo una politica monopolista, creando un cartello. Cercai inutilmente di entrare nel Consorzio petrolifero dell’Iran. Gli americani avevano il 42 per cento, gli inglesi il 40, il resto era diviso tra olandesi e francesi. Sarei stato contento di ottenere il tre o il quattro per cento. Mi sbatterono la porta in faccia. Prendemmo la decisione di rompere tutto questo e di non passare più attraverso le grandi compagnie, che avevano un bilancio pari a quello italiano, e dal loro cartello. Mi incontrai con uno dei grandi che mi chiamò per parlare di una collaborazione che mantenesse alto il prezzo, così avremmo guadagnato di più. Esattamente il contrario di quello che io voglio fare: ho il dovere di proteggere il consumatore. Gli dissi che in Italia avremmo deciso noi come andare avanti e non più loro. Gli dissi che per quanto riguardava il mercato estero non potevamo più essere trattati come dei poveri emigranti, cercai di fargli capire che eravamo gli imprenditori di un paese moderno e come tale volevamo essere trattati.
Cosa è accaduto?
Si è scatenata una grande lotta nei nostri confronti. Stiamo cominciando a vincere, perché noi proponiamo ai paesi che hanno petrolio condizioni più umane e molto vantaggiose, prima di tutto la compartecipazione al 50 per cento. Non siamo più estranei, ma compartecipiamo. Questo porterà vantaggi anche nei rapporti politici tra i due paesi.
Quanto vale oggi l’Eni?
Siamo vicino ai mille miliardi. Quello di cui vado più fiero, oltre ad aver fatto fruttare quei 15 miliardi dello Stato, sono i circa 200 che in questi pochi anni, da quando è sorto l’Ente nazionale idrocarburi, sono stati pagati in stipendi e salari. Sono miliardi rimasti in Italia, spesi nel nostro paese e non fuori per acquistare l’energia.
Co s ’è per lei è il successo?
Poter guardare, come stiamo facendo noi in questo momento, la città dei lavoratori. Sapere che ci sono chilometri di tubazioni che portano energia italiana nelle case degli italiani, questo è il mio successo. Guardi Biagi, a casa siamo solo io e mia moglie, il mio stipendio deve essere pari a quello del funzionario più pagato, tutto ciò che va oltre al milione non serve.
Lei è considerato un uomo determinato, che ha un giusto rapporto personale con i soldi, ma che non lesina quando si tratta di fare l’interesse delle sue imprese. C’è chi la giudica come un prepotente.
No, Biagi. Non sono un prepotente, sono uno a cui piace la battaglia, sempre disposto a combattere. n

Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 3/5/2014