Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 03 Sabato calendario

“IL TEMPO MI HA FATTO IL REGALO PIÙ BELLO: SONO RINATA FACENDO LA NONNA”

SELEZIONAXX

«Amo fare la nonna », esulta Carla Fracci. «Sono una di quelle nonnine tradizionali a cui piace coccolare i nipoti e lavorare a maglia», confessa nella sua casa di Roma, affacciata sulle spettacolari rovine dell’antico Foro.
«Mi è piaciuto trafficare con i ferri da maglia fin da quando andavo a scuola a Volongo, nella campagna lombarda», riferisce la massima ballerina italiana del Novecento.
«E adesso non è raro che, di sera, mi metta sul divano a fare il piccolo punto o qualche ricamo o rammendo. I ragazzi mi lasciano sempre qualcosa da rammendare».
È lieve come una nuvola la Fracci, stretta nel suo vasto scialle scarlatto. In lei niente comunica stanchezza, malgrado il poemetto dedicatole a suo tempo da Eugenio Montale, “La danzatrice stanca”.
Un attributo da valutare come un sogno o una metafora, perché persino adesso, alla sua età (è una Leonessa del 1936, nata in agosto), la minuta Carla esprime una tempra che sembra non risentire di incrinature.
Ha ancora il sorriso lucente e lo sguardo fortissimo (non è docile e mite come la si potrebbe immaginare) della regina della danza che, lungo una serie di memorabili decenni, ha trionfato a New York come a Mosca, a Tokyo come a Londra. A questa bandiera dell’arte italica sulle scene internazionali, a quest’idolo dei poeti e delle bambine (tutte, nell’ultima fetta del ventesimo secolo, volevano assomigliarle), piace, oggi, decantare i propri affetti solidi, spiegando che la “nonnità” può essere un approdo ricco di consapevolezze.
«Non mi sono rassegnata a essere nonna: sono felice davvero di esserlo. Ho due nipoti splendidi, Giovanni e Ariele, di nove e sei anni, figli di mio figlio Francesco, un bell’uomo dalla statura imponente, laureato in architettura a Venezia. Fu lì che conobbe Dina, architetto pure lei e madre dei suoi bambini. Ora vivono a Roma e Dina insegna alla Sapienza, mentre Francesco fa la spola tra Roma e Milano, dove tiene un corso al Politecnico ». Il padre di Francesco è il regista teatrale Beppe Menegatti, marito di Carla e suo complice professionale. Inseparabili nell’arte e nella vita, non hanno mai rinunciato a coltivare la loro dimensione familiare, così importante per questa diva d’acciaio. Racconta la Fracci che Francesco «era un bimbo ardito e sensibile. L’ho portato con me in tournée finché ha iniziato la scuola. Si commuoveva assistendo a “Giselle”, dove la protagonista impazzisce e soccombe per amore, o davanti al balletto “La strada”, ispirato al film di Fellini. Restò talmente turbato dalla morte di Gelsomina, interpretata da me, che non volle più vedere balletti».
Giovanni e Ariele sono due discoli scatenati, «e soprattutto il secondo è un folletto di vitalità incredibile. Sfuggono alle mie effusioni: mi danno un abbraccio rapido e scappano a giocare». Carla si definisce una nonna anti-consumista, e così è stata, afferma, pure come madre: «I ragazzi non possono pretendere di avere tutto. Certo, con Francesco ero più severa, le nonne tendono a essere meno esigenti. Ma cerco di convincere anche i miei nipoti a comprare pochi giocattoli e mi oppongo a un eccesso di televisione. Capisco che siano interessati al computer e ai giochi dell’iPad, ma faccio di tutto affinché non perdano il contatto con la natura. A Firenze, dove abbiamo una casa immersa nel verde, corrono attorno al laghetto e tra i rami del pino regalatomi da papà. Un alberello di Natale che ha attecchito bene, e che negli anni si è alzato tanto».
Suo padre Luigi faceva il tramviere: «Mi chiamava Nervuseti o Gamba de Seller, gamba di sedano, perché avevo le gambe magre come lui e il suo stesso carattere impaziente ». La madre Santina «lavorava come operaia alla Innocenti di Milano, città in cui sono nata e che divenne il bersaglio del Bomber Command britannico durante la guerra. Perciò, da piccola, sfollai a Volongo dalla nonna. Mi divertivo a guidare le oche fino alla riva del fiume Oglio. La campagna regala benedizioni: l’erba, la terra, una luna meno diafana e più carnale».
Non si può cogliere l’indole di Carla se si prescinde da questo culto delle radici, a cui appartiene anche la sua “nonnità” attraversata non come declino, ma come prospettiva rinfrescante: «Difficile pensare a qualcosa di più spassoso del volto fiero di Ariele quando dichiara che da grande vuol fare di mestiere il boscaiolo. È stato suo fratello Giovanni, appassionato di teatro, a scegliere per lui quel nome shakespeariano». Di nipoti, d’amore, di amici, di partner straordinari e bizzosi come Rudolf Nureyev (ma anche principeschi come Erik Bruhn, possenti come Vladimir Vassiliev, acrobatici come Mikhail Baryshnikov), la Fracci parla nell’autobiografia uscita di recente, dove narra il suo volo tra le brezze del successo. A lei, in Italia, si deve la “scoperta” del decentramento, che fu uno degli strumenti della sua enorme popolarità, oltre che un motore di diffusione del balletto a ogni livello: «Ho danzato nei tendoni, nelle chiese, nelle piazze. Volevo che il mio lavoro non fosse d’élite, relegato nelle scatole d’oro dei teatri d’opera. Anche quand’ero impegnata sulle scene più prestigiose, tornavo di continuo per esibirmi nei luoghi italiani più dimenticati. Nureyev mi sgridava: chi te lo fa fare, arrivi da New York e devi andare, che so, a Budrio… Ma il pubblico mi ha sempre ripagato». I numerosi incontri di cui s’è nutrita, anche al di là della danza, ne hanno fatto una donna stimolante e generosa, molto più sfaccettata di un prevedibile angioletto sulle punte: «Tanti amici formidabili hanno costellato la mia strada: Visconti, burbero e dolcissimo; De Sica, affascinante e ironico; Herbert Ross, per cui ho interpretato la Karsavina nel film Nijinsky; Peter Ustinov, con cui ho girato il film per la tivù Le ballerine; e ancora Franco Zeffirelli e Jack Nicholson, in una Los Angeles dove girava tanta coca. E la Cederna e Manzù ed Eduardo, che dopo avermi vista danzare come Filumena Marturano, ruolo di Titina, mi scrisse: “Ora posso chiamarti sorella”. E le estati a Forte dei Marmi con Henry Moore, Marino Marini, Guttuso. E Montale che disegnava il mare, le Apuane… Per farlo usava tutto, dal vino al rossetto». Cos’è la danza per Carla? «Un’arte misteriosa. Per conquistarla non basta il talento. Bisogna affiancargli tenacia e disciplina. E sapere bene quel che si vuole». Lei lo ha sempre saputo.

Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 3/5/2014