Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 03 Sabato calendario

NON CHIAMATEMI MAZZANTINI, ANCHE SE CON MARGARET FAREI UN FILM


[Giselda Mazzantini in arte Volodi]

Ci sono Ralph Fiennes e Tilda Swinton. Jude Law ed Edward Norton. Bill Murray e Léa Seydoux. Poi Willem Dafoe bussa a una porta, e chi gli apre? Giselda Volodi. Unica italiana nel cast (iper-super-extra) stellare di Grand Budapest Hotel. «Il regista, Wes Anderson, mi ha cercato perché si ricordava di me in Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino» racconta lei, che di cognome all’anagrafe fa Mazzantini (è la sorella della scrittrice Margaret). Paradossi italiani, non famosa da noi, amata all’estero. Riprova? Nel 1991 il debutto (impegnativo: era la Monna Lisa di Leonardo) è stato nell’hollywoodiano Hudson Hawk - Il mago del furto, con Bruce Willis. «Quella era una co-produzione, erano costretti a prendere attori locali» minimizza Giselda. Un nome antico - lo portava la nonna - che si attaglia perfettamente alla sua personalità atipica (pazientate, capirete perché).
Anderson però poteva scegliere chiunque... Chissà che ansia trovarsi su un set con tanti mostri sacri.
Non ho avuto un momento di panico, è stato divertente. Quando ho incontrato Fiennes, ci siamo fatti due risate: «Ma guarda te, sto a stringe’ la mano a Voldemort!». I miei figli, Chiara e Francesco, sono fanatici di Harry Potter... A me mettono agitazione altre persone, quelle che non stanno “a piombo”, loro sono in pace con la vita. Wes trasmette la sensazione di sommo equilibrio interiore, e poi ha questa fisicità così flessibile: sono affascinata dall’armonia del movimento, in parte per i miei studi...
Quali studi?
Ho iniziato a recitare da grande, a 29 anni e fra le prime cose che ho approfondito c’è stato il lavoro sul corpo. Non sono una di quelle iscritte a danza da bambina, anzi.
Anzi?
Noi sorelle (ci sono anche Moira, agente cinematografico e Cristina, giornalista, ndr) siamo state tirate su da papà (lo scrittore Carlo, ndr) come maschi. Ci pativo, mi sarebbe piaciuto qualcosa di femminile.
Un’infanzia sofferta?
Complicata. Mio padre era un uomo segnato, con grandi sbalzi d’umore. Invece mia madre (la pittrice irlandese Anne Donnelly, ndr) è solare. Che storia romantica, la loro: si sono conosciuti a Parigi, si sono innamorati e sono andati a vivere su una spiaggia.
Su una spiaggia?
Sì, in Spagna, molto bohémien. Dopo sei mesi si sono trasferiti in Marocco (io e Moira siamo nate a Tangeri), poi in Irlanda e, quando avevo quattro anni, definitivamente in Italia.
Più rilassante?
Stavamo in campagna, fuori dal mondo. Papà ha compiuto la scelta dell’intellettuale che torna alla natura. Eravamo un po’ artiste (passavamo i pomeriggi a sfogliare i libri d’arte di mamma, accanto al caminetto) e un po’ contadinelle... Ricordo che raccoglievamo le olive e intanto ascoltavamo la prosa alla radio.
Lì la scintilla per la recitazione.
No. Da piccola avevo proclamato: “Diventerò un’attrice-missionaria”, ma poi non ci ho più pensato. Ho annaspato a lungo, ero poco serena, con una sensibilità esasperata, disegnavo, dipingevo, adoravo la poesia greca... Alla fine mi sono iscritta ad architettura, ho iniziato a lavorare in vari studi, finché ho capito: tutta questa solidità non mi andava bene, dovevo lasciar vivere altre parti di me. Meno testa, meno Ego, maggior attesa fiduciosa in quel che succederà.
E che successe?
Mi sono segnata a un corso di teatro e ho subito capito che era la vera scuola della mia vita. C’è una frase di Jodorowsky in cui mi riconosco: «Non mi piace l’arte che serve a celebrare il suo esecutore. Mi piace l’arte che serve per guarire».
Perché si è cambiata il cognome?
C’erano già Margaret, papà: non si poteva allungare la sfilza dei Mazzantini! Avevo pure bisogno di sentirmi libera, sono figure imponenti. Volodi mi piaceva, c’è l’idea di volo e Volodia, in Il racconto di Sonecka della Cvetaeva, è un attore che dice addio alla recitazione. Io l’ho scelto per iniziare.
Chissà come commenterebbe Freud.
Non è una contraddizione, recitare per me non significa rappresentare qualcosa di falso, ma avvicinarsi di più alla verità. Per questo continuo a frequentare seminari, considero la formazione una cosa permanente.
Non se la gode mai?
Mi godo il percorso.
Come Anderson è “in pace con la vita”?
Per i massimi sistemi, sì. Comunque ho tanti momenti di difficoltà: lavoro poco, nonostante mi siano riconosciute le qualità. Mi sento un auto col motore al massimo, che resta in folle.
Che spiegazione si dà?
Sono fuori dai canoni estetici convenzionali. O, forse, è per il carattere: troppo sincera, diretta, non seduttiva.
Con sua sorella e suo cognato, Sergio Castellitto, girerebbe un film?
Certo! Se succedesse, ne sarei ben contenta. Collaborammo in Libero Burro, il primo da regista di Sergio: nel montaggio, purtroppo, la mia parte saltò.