Roberto Rossi, l’Unità 5/5/2014, 5 maggio 2014
NELLE MANI DELLA CAMORRA
Era il 1986. Il primo scatto risale ad allora. Quasi trenta anni fa. Diego Armando Maradona, leggenda del dio pallone, fu ritratto sorridente, quasi ilare, all’interno di una vasca idromassaggio accanto all’allora latitante Carmine Giuliano, detto «o lione», padrone indiscusso di Forcella. In quell’anno il Napoli vinceva il suo primo scudetto. Quella foto fu una sorta di spartiacque. Sancì, in maniera inequivocabile, il legame stretto tra criminalità organizzata e il mondo del calcio, tra camorra e calciatori. Di scatti da allora ce ne sono stati parecchi. Quel legame non si è mai rotto. Anzi, in un certo senso, si è con il tempo saldato. Perché il tifo, a Napoli ma non solo, è roba per gente seria. Tifo è potere, tifo è consenso, tifo, infine, è denaro.
Così lo è per Gennaro De Tommaso, l’uomo ritratto mentre organizza o placa, a seconda degli eventi, la curva partenopea nella finale di Coppa Italia di due giorni fa all’Olimpico di Roma, l’uomo che parla a tu per tu, come un vecchio amico, con Marek Hamsik, il capitano del Napoli. La maglietta che «Genny ‘a carogna» indossa non deve trarre in inganno. Quella scritta, «Speziale libero», in riferimento all’ultrà del Catania che sta scontando otto anni per l’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti avvenuto il 2 febbraio del 2007 durante i disordini nel derby con il Palermo, è parzialmente fuorviante. Perché De Tommaso non è un ultrà qualsiasi. La sua leadership nella curva è nota da tempo: prima come capo del gruppo dei «Mastiffs», e poi alla guida dell’intera curva A del San Paolo. Gennaro, dunque è il numero uno indiscusso. Ma è anche il figlio di Ciro De Tommaso, ritenuto affiliato al clan camorristico del Rione Sanità dei Misso.
La sua immagine a braccia larghe ha fatto il giro del mondo. È diventata il simbolo di uno strapotere. Eppure, non racconta, fino in fondo, il legame tra camorra e calcio. Semmai c’è un’altra foto più adatta, che andrebbe annotata e che molti hanno dimenticato. Non ritrae scene di violenza e di delirio collettivo. È stata scattata il 10 aprile 2010. Vi è immortalato il boss Antonio Lo Russo in maglietta rossa mentre assiste, beato, alla sfida di campionato Tra Napoli e Parma da bordo campo. Lo Russo, uno dei cento latitanti più pericolosi, condannato a 20 anni di reclusione per associazione a delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti, catturato in Francia lo scorso aprile, era amico di alcuni calciatori del Napoli. Il pentito Emanuele Ferrara, che denunciò un giro di scommesse proprio sul calcio in mano alla camorra, ricordava come quest’ultimi fossero presenti sugli spalti in alcune partite amichevoli giocate proprio dai boss.
Uno dei più assidui, segnalava sempre il pentito, era l’ex azzurro Ezequiel Lavezzi. Il quale, spesso, andava a vedere giocare Lo Russo nei tornei fra boss, mentre quest’ultimo, come ricordato, era presente durante le partite del Napoli a bordo campo, camuffandosi con una casacca da giardiniere. Ferrara descrisse di un rapporto molto più stretto perché Lo Russo era anche solito recarsi a Posillipo, presso l’abitazione di Lavezzi, dove i due si intrattenevano giocando alla Play Station.
I rapporti tra le stelle del pallone e i tifosi pericolosi, spiegava nel 2012 il procuratore aggiunto della procura di Napoli Giovanni Melillo, «sono molto frequenti: Le pressioni dei gruppi ultra sulla società possono tornare utili quando è il momento di rinnovare il contratto». «Quando si profilava la possibilità che io lasciassi il Napoli – disse ai pm Lavezzi – fu proprio Lo Russo ad attivarsi perché in curva B fosse esposto lo striscione che mi invitava a non andare via».
E come poteva Lo Russo avere tanto potere all’interno della curva se non controllandola? Nel 2010 Emiliano Misso, ex boss del Rione Sanità, un tempo collaboratore di giustizia (poi pentitosi di esserlo), raccontò di come «i gruppi dei tifosi presenti in curva, rispettano regole precise e sono l’espressione dei clan camorristici della città». Nella curva durante le partite di Serie A, ricordava Misso, «potevano accedere solo persone controllate da noi. Se qualcuno osava sfidarci lo buttavamo giù dagli spalti. Avvenivano riunioni anche per decidere attacchi contro tifosi di altre squadre, le aggressioni venivano decise a tavolino».
Alcune inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Napoli evidenziarono, poi, aree di commistione evidente, per esempio, tra alcuni pregiudicati iscritti ai Mastiffs con i nuclei criminali «storici» di Forcella (clan Giuliano) e della Sanità (clan Misso). Il disciolto gruppo della «Masseria», invece, era riferibile agli ambienti della Masseria Cardone (clan Licciardi). Infiltrazioni camorristiche risultano in numerosi atti giudiziari e informative per quel che riguarda poi la Brigata Carolina (clan del Pallonetto e dei Quartieri spagnoli).
Un’informativa della Squadra mobile di Napoli di qualche tempo fa, infine, descrisse di un summit svoltosi a tarda notte nell’area di parcheggio interno all’ospedale Cardarelli tra affiliati alle cosche dell’Alleanza di Secondigliano i quali mediarono tra alcune sigle ultrà in quel momento in contrasto tra loro. L’intervento dei boss dell’Alleanza servì a riportare la quiete sugli spalti.
Un po’ come quello fatto da «Genny ‘a carogna». Ripreso in quell’ultimo scatto allo stadio Olimpico. Una foto indimenticabile.