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 2014  maggio 04 Domenica calendario

MARCO BELLOCCHIO – PITTORE PER CASO [PARLA IL REGISTA: OGGI NON DIPINGO PIÙ MA DISEGNO GLI STORYBOARD DEI MIEI DISEGNI]


LO SCETTRO DEL FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO È STATO CONSEGNATO A MARCO BELLOCCHIO. Il prestigioso riconoscimento cade a un anno dal cinquantenario del capolavoro I Pugni in Tasca (peraltro, il protagonista Lou Castel è nella giuria dei film in concorso al Festival) e premia l’opera di un regista che molti considerano, assieme a Bernardo Bertolucci, l’ultimo grande talento del Cinema italiano, dopo la generazione dei Fellini, Antonioni, Pasolini, Rosi, certo il più anticonformista e, visivamente, il più raffinato. In occasione dell’attribuzione dell’«Ulivo d’argento», il direttore del Festival Alberto La Monica ci ha sorpreso piacevolmente con la mostra, al Museo Storico, di una sessantina tra disegni e dipinti del regista piacentino, accoppiata alla presentazione del bel volume Morale e Bellezza che accompagna i 18 film di Marco Bellocchio in rassegna, fino a giugno, al Moma di New York.
«Smisi a vent’anni, quando andai a Roma, al Centro Sperimentale di Cinematografia – ha commentato Bellocchio –. Avevo dipinto carri funebri senza cavalli, angoscia senza colori, madri in carrozzina coi capelli corti (sono ancora donne?), ma anche Arlecchino al chiaro di luna, violinisti verdi e bambini nel giorno della prima comunione. Munch, Chagall, alcuni interpreti dell’espressionismo tedesco, erano le fonti d’ispirazione di questa mia disperazione un po’ compiaciuta, ma anche molto motivata. Ero influenzato anche dalle letture di Dante, Dostojewskj, Brecht, del Doctor Faustus di Thomas Mann, e da film come Il Gabinetto del Dottor Caligari, Nosferatu, Metropolis. Il passaggio al cinema, per me, fu quasi naturale. Non è che abbia rinunciato alla pittura: quei quadri non hanno valore in sé, ma vanno allacciati al mio lavoro cinematografico. Nel film L’Ora di Religione, quando Sergio Castellitto dipinge, ho ricordato quell’attività interrotta. In altri film, specie gli ultimi, da Buongiorno Notte a Vincere, ho cercato di spingere il realismo alle forme dell’espressionismo tedesco: Otto Dix, George Grosz. Non ho più avuto voglia di rimettermi davanti a un cavalletto, ma contino a disegnare gli storyboard dei miei film: i colori e le forme mi sono utili, in prospettiva, per arrivare alle immagini che ho in testa. In questo senso, la mostra non è separata dal mio percorso di regista».
Fin da «I Pugni in Tasca», il suo «Cinema del dissenso» ha avuto, quasi sempre, per bersaglio la famiglia. «Morale e Bellezza», che riconducono al suo film, sono concetti riproponibili anche oggi?
«Quelli trascorsi in famiglia sono gli anni in cui si gioca la vita. Io li ho vissuti in modo burrascoso, se non traumatico. Se la mia vita familiare fosse stata più serena, se ci fosse stato più amore, forse mi sarei dedicato ad altri temi. Il concetto di moralità è molto legato alla formazione del mio tempo: allora, sia che fossimo cattolici, sia che venissimo da un’educazione laica, aveva un peso maggiore. Allora, l’utopia di cambiare il mondo aveva una sua ragione. Oggi, la politica non aspira più a cambiare la società. Però, mi colpiscono l’attenzione e le reazioni dei giovani quando rivedo con loro I Pugni in Tasca: è successo anche con gli americani alla mostra del Moma. Penso che, sebbene si viva diversamente in famiglia, un certo tipo di furore sia ancora presente. Chiaro, oggi i giovani sono attaccati ai tablet, ai loro giochini interminabili, ma riescono, comunque, a percepire i valori universali. C’è un Cinema italiano nuovo e vivo. Per esempio. Salvo, di Fabio Grassadonia ed Antonio Piazza, girato con pochi soldi, ma con maestria. E non è il solo: ci sono altri film di alto livello, firmati da registi giovani».
Quanto è stata importante la collaborazione con Il famoso psicanalista Massimo Fagioli?
«Per un lungo periodo, ho partecipato alle sedute collettive del professor Fagioli. In quel mentre, Fagioli, in maniera diversa, ha collaborato a tre miei film Diavolo in Corpo, La Condanna, che vinse l’Orso d’Argento a Berlino, e Il Sogno della Farfalla. È stata un’esperienza di tipo radicale e, conclusa la terapia, si è interrotto anche il nostro rapporto personale. Rimane il sentimento di aver vissuto un’esperienza molto preziosa».
Qual è il limite del compromesso per il cinema d’autore?
«Sono particolarmente legato ad Antonioni, Bresson, la “Nouvelle Vague” francese, il “Cinema Novo” brasiliano, che hanno saputo raccontare le storie in forme affascinanti. Ma quelli erano anni di grandi novità, in cui le cose stavano cambiando molto. Io ho cercato di rispondere con la mia fantasia a ciò che mi aveva colpito, intorno a me. Sì, penso che ci sia un limite al compromesso: se lo valichi, distruggi la tua opera. Antonioni in Deserto Rosso e Fellini ne La Strada hanno utilizzato i divi Richard Harris e Anthony Quinn ed è stato un successo in tutti i sensi. Anche il successo del cinema d’autore deve passare dal botteghino, ne sono convinto.
Pensa ancora che gli americani non possano capire il Cinema italiano, come sostenne due anni fa, alla Mostra di Venezia, quando «La Bella Addormentata» fu esclusa dai premi?
«Non generalizziamo, allora risposi a un’attrice americana in giuria che accusò il cinema italiano di non saper fare film universali. Replicai che era una stupidaggine. Recentemente, Martin Scorsese ha citato il mio Vincere, La Grande Bellezza di Sorrentino e Gomorra di Garrone, come esempi di film universali. C’è un problema di limitazione di distribuzione dovuto alla lingua: è vero. Ma se essere universale significa essere alla moda, o andare al passo coi tempi, si rischia di sconfinare in un attualismo stupido e superficiale».
A che punto è «La Prigione di Bobbio», storia piccante di un’aristocratica costretta alla clausura?
«Sul prossimo film non anticipo niente perché stiamo valutando più di un progetto. Occorre pazientare».