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 2014  maggio 04 Domenica calendario

IL CAIMANO E L’ELEFANTE


È TORNATO L’ELEFANTE. È VERO, PER UN PO’ CI SIAMO ILLUSI DI POTER RIAVERE, DOPO TANTI ANNI, UNA CAMPAGNA elettorale normale, accesa e iperbolica naturalmente (tutte le campagna elettorali lo sono) ma dove a prevalere fossero le esigenze del Paese e dell’Europa, dove si parlasse del lavoro che sparisce e della diseguaglianza che cresce, con la notizia sconvolgente (ma non sorprendente) diramata ieri dal Censis che le dieci persone più ricche d’Italia hanno un patrimonio pari a quello di 500mila famiglie operaie messe insieme. Dieci contro mezzo milione. Di questo vorremmo che si parlasse in questa campagna elettorale che riguarda l’Europa ma parla all’Italia. Invece, eccolo lì il pachiderma. Enorme, pesante, possente. Soprattutto impossibile da evitare, come ha spiegato con lucida analisi George Lakoff: perché una volta che lo nomini, lui è lì davanti a te.
E anche se non vuoi, anche se ti ripeti «Non pensare all’elefante» (il titolo del suo libro più famoso) quella tonnellata con proboscide ti si piazza di fronte con tutta l’aria di rimanerci a lungo. Perché più un’accusa lanciata contro un avversario è grande e pesante, anche se irreale, più resta nella mente di chi ascolta. E col passare del tempo e delle ripetizioni finisce per diventare credibile. E creduta.
Lo sanno bene negli Stati Uniti dove i Repubblicani – con il metodo dell’elefante – hanno vinto due volte la Casa Bianca e si sono portati a casa decine e decine di governatori. E lo sa bene Silvio Berlusconi, che di quella tecnica di comunicazione (il termine usato è framing) è diventato l’interprete più abile e moderno, come ha riconosciuto lo stesso Lakoff.
L’elefante è tornato e con lui il ricordo di vent’anni da circo con barzellette, corna e cucù perché il pachiderma italiano è più simpatico dell’originale americano: ti fa anche ridere o almeno ci prova. Poi però arriva sempre al dunque e tra una battuta e l’altra ecco che rispuntano il partito delle tasse e le toghe rosse. Perché nel mondo dell’elefante, delle definizioni gratuite ma “pesanti”, i comunisti sono dappertutto: nei giornali, nei ministeri, al Quirinale. Forse anche a San Pietro.
Sì, l’elefante è tornato. Lo ha ripescato Silvio Berlusconi che, come il topino in livrea di Dumbo, lo sta portando negli studi di tutte le tv (Porta a porta, Mattino Cinque, Piazza Pulita, Virus, oggi dall’Annunziata) nel tentativo disperato di recuperare voti e consensi. Con scarso successo, per il momento, perché preso dalla frenesia della rincorsa l’ex Cavaliere sta violando le regole di quel gioco di cui una volta era maestro e anziché battere tante volte sullo stesso chiodo (unico modo per rendere credibile anche l’aria fritta) martella una volta sola su tanti chiodi diversi, sparando a raffica l’intero repertorio di assurdità come i quattro colpi di Stato, i giudici golpisti, l’assoluzione in arrivo dall’Europa, Renzi «tassatore», Napolitano «profondo rosso». Grillo «peggio di Stalin e Hitler», i tedeschi che ancora oggi pensano che «i lager non siano mai esisititi»...
È un elefante zoppo, insomma, quello che Berlusconi sta portando in giro in questi giorni, o forse solo un po’ invecchiato come il suo ammaestratore. Eppure è un animale potente che sarebbe meglio non sottovalutare, come abbiamo fatto per venti lunghissimi anni, parlando del caimano ma ignorando il pachiderma. Fa bene dunque Renzi a non rispondere alle provocazioni del cavaliere dimezzato, a lasciar cadere le accuse, insensate ma insolenti, di aver alzato le tasse pur di pagare la «mancia elettorale» degli ottanta euro. Nello stesso tempo, sarebbe opportuno aver ben chiaro l’arnese che Berlusconi è andato a ripescare giù in cantina e che, nonostante le difficoltà iniziali, potrebbe ricominciare a maneggiare con una certa abilità. Anche perché non è escluso che la strategia del silenzio scelta dal premier venga alla lunga interpretata come un segno di debolezza anziché di forza.
Per chiudere una volta per tutte una pagina non molto luminosa del nostro Paese, c’è dunque solo un modo: rubare l’elefante a Berlusconi. Non per rivolgergli accuse infondate o inventate, come ha fatto lui per troppo tempo, ma per ricordare agli italiani chi è stato per ben tre volte il loro premier. Non un elefante volante, dunque, come quelli che l’ex premier ha ammaestrato in tutti questi anni, ma un animale molto più solido e piantato perché abituato a trasportare fatti reali e risultati concreti. Ne elenchiamo tre.
Dimissioni. In tutti i Paesi del mondo, persino in Rwanda, i politici che ricoprono incarichi di rilievo, ministri tanto per intenderci, si dimettono appena hanno problemi con la giustizia: lo ha fatto un ministro inglese per aver tentato di dirottare sulla patente della moglie i punti tolti per una infrazione stradale commessa da lui, un altro ha lasciato per non aver versato i contributi della colf e in Germania ben due ministri se ne sono andati appena si è scoperto che avevano copiato le loro tesi di laurea. Il re di Arcore non si è dimesso nemmeno davanti a una condanna di terzo grado: c’è voluto un voto dell’Aula per farlo decadere da senatore. Elefante numero uno: il simbolo del potere incollato alla poltrona si chiama Silvio Berlusconi.
Tasse. Nel maggio 2008, quando l’allora cavaliere tornò per la terza volta a Palazzo Chigi, il peso delle tasse sul Pil era del 42.7%: l’anno dopo, nonostante l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, la pressione salì al 43.1% e nel 2011, prima dell’arrivo di Monti, arrivò addirittura a ridosso del 45%. Berlusconi dice di voler abbassare le tasse, ma alla prova dei fatti con lui la pressione fiscale è sempre aumentata. Elefante numero due: il simbolo del potere che non mantiene le promesse e alza le tasse si chiama Silvio Berlusconi.
Evasione. Un modo efficace per abbassare le tasse è farle pagare a tutti combattendo l’evasione fiscale che secondo Bankitalia ammonta a 120 miliardi l’anno. Berlusconi ha fatto l’esatto contrario: appena tornato al governo ha eliminato le norme antievasione messe in atto da Visco durante il governo Prodi; ha realizzato una politica dei condoni che ha favorito comportamenti illegali (tanto poi ne arriva un altro...); ha sostenuto pubblicamente che è «moralmente giustificabile evadere il fisco» (17 febbraio 2004, conferenza stampa a Palazzo Chigi). Infine è stato condannato a quattro anni per una frode fiscale di 7,3 milioni di euro, così come è stata accertata (senza esiti penali soltanto per via della prescrizione breve, vedi ex Cirielli) l’esistenza di fondi neri per 368 milioni di dollari. Elefante numero tre: il simbolo del potere che non paga le tasse ma le fa pagare agli altri si chiama Silvio Berlusconi. La lista delle cose da dire e ripetere è assai più lunga, ma insistere su questi tre punti sarebbe più che sufficiente a centrare due obbiettivi. Il primo, ricordare agli italiani, e a lui stesso, chi è quel signore che, nonostante la condanna a quattro anni, si permette di andare in tv a raccontare come si dovrebbe governare l’Italia. Il secondo, spingere la sinistra a meditare sul fatto che l’errore più grosso degli ultimi vent’anni, forse, è stato aver pensato soltanto ai denti del caimano. Nel frattempo c’era un elefante libero che correva negli ampi spazi della campagna mediatica.