Sergio Romano, Corriere della Sera 6/5/2014, 6 maggio 2014
GRILLO CONTRO IL QUIRINALE PERCHÉ NON VIENE PROCESSATO
L’art. 290 del codice penale prevede il reato di vilipendio verso gli organi istituzionali. È mai possibile che il signor Grillo continui a insultare il nostro presidente senza che la magistratura intervenga in merito? Magari l’ex comico se ne fregherà della lieve multa e continuerà a insultare. In questo caso, la reiterazione del reato non dovrebbe comportare un inasprimento della pena prevedendo magari misure più severe (un sogno bellissimo, ma impossibile sarebbe la carcerazione!)?
Mario Donetti
Caro Donetti,
L’articolo del codice penale che concerne le offese al presidente è il 278. Prevede pene da 1 a 5 anni, ma contiene una clausola che risponde implicitamente alla sua domanda: per procedere contro un imputato occorre l’autorizzazione del ministero della Giustizia. Evidentemente il legislatore ha deciso che il reato è politico, che la celebrazione di un processo avrebbe ricadute politiche e che queste ricadute vadano attentamente pesate. Che cosa accadrebbe se Grillo venisse processato? Quale uso farebbe della platea che il processo gli garantirebbe? Come reagirebbe il suo elettorato e, più generalmente, la società nazionale? Anche se il presidente si astenesse da qualsiasi dichiarazione, il processo farebbe di lui, inevitabilmente, l’antagonista del leader del M5S. È opportuno dare agli italiani l’impressione di assistere al duello in un’aula di tribunale fra il capo dello Stato e il capo di un partito?
Non so se la possibilità di un processo a Grillo sia stata presa in considerazione da una Procura della Repubblica e se vi siano stati sondaggi al ministero della Giustizia o, addirittura, al Quirinale. Ma so che in questi ultimi decenni i reati d’opinione sono diventati, non soltanto in Italia, sempre più difficilmente perseguibili. Quando Giovanni Guareschi fu processato per una vignetta satirica che mancava di rispetto al presidente della Repubblica (era Luigi Einaudi), vi furono molte proteste, ma prevalse nella società la convinzione che il disegno pubblicato dal settimanale Candido fosse un atto eversivo. Oggi correremmo il rischio di dividere il Paese in «partigiani di Grillo» e «partigiani di Napolitano».
Qualche lettore si chiederà a questo punto quale senso abbia l’obbligatorietà dell’azione penale se il perseguimento di un reato può dipendere da considerazioni politiche. Risponderei che l’obbligo dell’azione penale fu introdotto nella Costituzione italiana (art. 112) per impedire che i procuratori fossero soggetti alle istruzioni del ministro della Giustizia. Se avessero saputo che quella formula avrebbe avuto per effetto la discrezionalità dei procuratori, i costituenti non l’avrebbero usata.