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 2014  maggio 04 Domenica calendario

IL DUCE, CHE EMOZIONE!

Se fosse stato pubblicato negli anni Settanta un libro sulla «storia emotiva dell’Italia fascista» sarebbe stato certamente attaccato dalla storiografia antifascista militante come uno dei peggiori prodotti del revisionismo della cosiddetta "scuola defeliciana", cioè la scuola allevata da Renzo De Felice, accusato di proporre una «storiografia anti-antifascista», il cui subdolo scopo era riabilitare il fascismo, sostenendo che il regime ebbe un consenso popolare. Infatti, questa è la tesi sostenuta nel suo libro, pubblicato due anni fa in Inghilterra, dallo storico inglese Christopher Duggan, già autore di una notevole biografia di Francesco Crispi. Duggan stesso ricorda che negli anni Settanta, in Italia, qualunque cosa «fosse suscettibile di suggerire che il fascismo aveva goduto un sostegno genuino era inaccettabile», e cita lo scalpore allora suscitato da De Felice per aver affermato che nel 1936 esisteva un consenso generale al regime, anche se la sua asserzione, precisa Duggan, era basata «non tanto su un’analisi di ciò che gli italiani comuni pensavano, quanto sull’assenza di qualunque visibile o esplicita opposizione».
Quasi quaranta anni dopo, lo storico inglese sembra esser venuto in soccorso dello storico italiano, confermando l’esistenza di un «consenso generale al regime», attraverso la storia dei sentimenti degli «italiani comuni» verso il duce e il regime, basata su alcune decine di diari di gente comune, conservati nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, su alcune lettere inviate dal duce dalla gente comune, oltre che su diari e memorie edite di fascisti e antifascisti. Sulla base di questa documentazione, in verità non molto ampia, Duggan si è convinto che il fascismo godette di un largo consenso alimentato principalmente dal mito del duce. A tale consenso emotivo, Duggan attribuisce addirittura «una dimensione religiosa», suscitata da riti e dai miti del regime, che secondo lo storico inglese non può essere ignorata se si vuol comprendere «il modo in cui la gente comune si rapportava al regime». Pur evitando con accurata cautela di avvalersi del concetto di «religione politica», Duggan ne utilizza la funzione interpretativa, fino ad affermare che insistendo sulla «superiorità morale e politica della fede e dell’obbedienza sulla razionalità e sullo spirito critico, il regime fu in grado di mobilitare il consenso di vastissimi settori della popolazione italiana fino allora rimasti estranei alla vita pubblica».
Nel complesso, con la sua «storia intima» dell’Italia mussoliniana, lo storico inglese non aggiunge nulla di nuovo a quanto è già stato ampiamente esplorato dalla storiografia sul fascismo negli ultimi decenni per quanto riguarda l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso il regime, il ruolo del "culto del littorio" e del mito del duce nella politica di massa del partito fascista, gli ondeggiamenti dei sentimenti collettivi nei confronti della condotta del regime in politica interna e in politica estera.
Del resto, il ricorso ai diari della gente comune, con la pretesa di ricostruire una verità storica «dal basso» ritenuta più genuina di una verità storica ricostruita «dall’alto», si presta a sostanziali obiezioni, che investono l’intera questione del consenso in un regime totalitario. Basti considerare che quando il fascismo giunse al potere, gli italiani erano 38 milioni nel 1922, aumentati a 45 milioni nel 1942, e di questi, uomini e donne, oltre 23 milioni erano iscritti al partito fascista e alle organizzazioni da esso dipendenti. Quale valore rappresentativo per una «storia intima» di quaranta milioni di italiani possono avere una settantina di diari e una trentina di lettere di gente comune, quanti sono i documenti citati nel libro di Duggan? La stessa considerazione varrebbe per una «storia intima» che giungesse a dimostrare, con documentazione analoga, l’esistenza di un largo dissenso emotivo della gente comune nel regime fascista.
L’impossibilità di sondare i sentimenti intimi di milioni di italiani, uomini, donne, bambini, giovani, vecchi, qualunque sia la fonte utilizzata, è un ostacolo insormontabile per qualsiasi storico che voglia trattare il problema del consenso nel regime fascista o in qualsiasi altro regime totalitario. Qualunque fosse l’atteggiamento dei capi dei regimi totalitari rispetto al consenso della popolazione su cui dominano, è un fatto storico indubitabile che nessuno di loro ha mai fondato il suo potere sul consenso della gente comune, comunque motivato, sollecitato, fabbricato e organizzato, ma solo e sempre sul monopolio politico del partito unico, sulla forza armata, sulla prevenzione ed espressione poliziesca, e sulla irreggimentazione della popolazione, fossero o no consenzienti.
Dopo quaranta anni di polemiche, e dopo la lettura del libro di Duggan, appare confermata la perplessità da noi espressa fin dagli anni Ottanta sulla questione del consenso, che consideravamo allora, e consideriamo tuttora come Francesco De Sanctis considerava la questione di Machiavelli «una questione posta male».