Mario Ajello, il Messaggero 3/5/2014, 3 maggio 2014
LO SFREGIO DI PELÙ CHE SFRUTTA IL PALCO DEL PRIMO MAGGIO
Non bisognerebbe parlare di lavoro? Macché. Il palco del primo maggio come tribuna omnibus, come Hyde Park Corner de’ noantri, come luogo per predicatori da tele-piazza rock: come se il rock, quello vero e non il mainstream ormai «spompo» alla Piero Pelù, fosse qualcosa di compatibile con la tivvù. E già qui c’è l’imbroglio. In più il leader dei Litfiba è una pop-star in crisi d’ispirazione e di incassi.
Perciò la butta in politica anzi in caciara, tra qualunquismo e qualcunismo (pur di tornare ad essere qualcuno, si dà del «boy scout di Gelli a Renzi» che ai tempi della P2 aveva cinque anni mentre Pelù andò a visitare il Venerabile a Villa Wanda nel ’95), ricorrendo a un classico escamotage da paesaggio italiano. Ma sarebbe il momento di smetterla.
Se Pelù, invece che Renzi, avesse attaccato Grillo o Berlusconi o Alfano, avrebbe compiuto un pessimo errore pseudo-politicante, esattamente come quello che il leader dei Litfiba ha fatto l’altro giorno a Piazza San Giovanni. Mescolando rancori personali e nonsense anti-politici (quelli che dovrebbero fare trend), in una minestra fredda che non ha riscaldato il pubblico ma solo la genitrice dell’ex Diablo (ormai cinquantunenne e esposto alle ironie del presentatore Vergassola per il suo look da ragazzino maledetto: «Non rischi che sotto i pantaloni di cuoio ti si veda il pannolone?») la quale ha detto al pargolo cresciuto e invecchiato pur restando sempre un mammone rock: «Hai fatto bene a cantargliele a Renzi».
Salire su un palco che il primo maggio rappresenta a suo modo la nazione (o almeno la festa di una nazione), approfittare di un’occasione così ufficiale e dedicata a un tema così grave come quello del lavoro, usare la tivvù pubblica (che trasmette l’evento) per un comizio privato, trasformare un concerto popolare (finanziato con i soldi di tutti) in un talk show dove parla uno solo è insieme disprezzo delle regole e furbizia. Significa sfruttare la visibilità di Renzi (o di chiunque altro fosse stato a Palazzo Chigi) per recuperare la propria visibilità. Non è meglio invecchiare, come cantante, scrivendo brutti libri come quelli di Francesco Guccini (che resta un grande) o esordendo a 63 anni con un romanzo einaudiano assai sconclusionato («Tretrecinque») come ha appena fatto Ivano Fossati (che resta un grandissimo)?
No, Pelù non doveva. Lui che fu un pioniere della rottamazione (cantava in «Tex»: «E basta con le vostre bugie bugie bugie bugie») più che rottamare Renzi ha rottamato se stesso. Ma soprattutto ha immiserito una giornata importante, ha insultato il dramma del lavoro parlando di Gelli, ha riportato tutto indietro a un’Italia che non c’è più (Gelli? Ancora Gelli?), ha insultato i giovani togliendo loro la speranza che la politica possa cambiare e non è negativa di per sè, ha scimmiottato Grillo perchè tra artisti ci si intende e grilleggiare conviene (naturalmente Beppe si è subito complimentato via blog), ha riportato indietro il tono del dibattito pubblico a cui non serve lo slogan paleo-rock ma la praticità dei discorsi sui contenuti e sui problemi.
Ma un ex diavolo che deve rifare «El diablo» (anno 1990) si arrangia come può. Banalizzare la festa del lavoro e ridurla a teatrino politicante e a fiera delle vanità - invece che ripensarla seriamente adattandola ai tempi e alle nuove questioni economiche, sociali e legislative - non è fare un torto al governo, impegnato in altre e più gravi faccende. E’ semmai la riconferma che il conservatorismo (anche il conservatorismo di sè), l’insensibilità all’interesse generale e il ribellismo che diventa conformismo non sono purtroppo «soggetti smarriti» (come da titolo di una canzone di Pelù) e restano viceversa malattie italiane difficili da estirpare. Specie se mascherate con atteggiamenti combat.