Luigi Cucchi, il Giornale 4/5/2014, 4 maggio 2014
IL 3-5% DEI PAZIENTI COLPITI SUPERA 85 ANNI, MA VI SONO ANCHE I QUARANTENNI
Negli Stati Uniti, uno studio della Johns Hopkins su neuroni umani coltivati inlaboratorio ha portato all’identificazione di un processo che concorre ad una particolare condizione della malattia di Parkinson. La possibilità di intervenire su tale processo può aprire le porte ad una nuova speranza di trattamento. Fino ad oggi alcuni farmaci, come la L-dopa, consentono ai pazienti una più facile gestione dei sintomi, ma il disturbo non può essere arrestato e il peggioramento della malattia porta ad un aumento dei tremori fino all’immobilità e, a volte, alla demenza.
Il progetto di ricerca coordinato da Ted Dawson, professore di neurologia e direttore del dipartimento di ingegneria cellulare del Johns Hopkins, ha preso avvio dalle scoperte sull’origine della malattia di Parkinson, i cui sintomi sono legati alla degenerazione delle cellule nervose responsabili della produzione di dopamina. L’implicazione di fattori genetici nell’origine del disturbo sono apparse una decina di anni fa, quando è stata identificata una mutazione chiave in un enzima. È stato Dawson a riconoscere che si trattava di una chinasi, cioè un tipo di enzima che trasporta gruppi fosfato alle proteine, modulandone la loro attivazione.
Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa, ad evoluzione lenta ma progressiva, che coinvolge, principalmente, alcune funzioni quali il controllo dei movimenti e dell’equilibrio. La maggior parte dei pazienti (ma non tutti) presenta un tremore che interessa la mano o anche i piedi o la mandibola. La malattia fa parte di un gruppo di patologie definite Disordini del Movimento e tra queste è la più frequente. I sintomi del Parkinson sono noti da migliaia di anni: una prima descrizione è stata trovata in uno scritto di medicina indiana risalente al 5.000 A.C. ed un’altra in un documento cinese di 2.500 anni fa. Il nome è legato a James Parkinson, un farmacista chirurgo londinese del XIX secolo, deceduto nel 1824, che per primo descrisse gran parte dei sintomi della malattia in un famoso libretto, il «Trattato sulla paralisi agitante». Questa patologia è presente in tutto il mondo ed in tutti i gruppi etnici. L’età media di esordio è intorno ai 58-60 anni, ma circa il 5 % dei pazienti può presentare un esordio giovanile tra i 21 ed i 40 anni. Prima dei 20 anni è estremamente rara. Sopra i 60 anni colpisce 1-2% della popolazione, mentre la percentuale sale al 3- 5% quando l’età è superiore agli 85. Le strutture coinvolte nella malattia di Parkinson si trovano in aree profonde del cervello, note come gangli della base, che partecipano alla corretta esecuzione dei movimenti . La malattia di Parkinson si manifesta quando la produzione di dopamina nel cervello diminuisce. I livelli ridotti di dopamina sono dovuti alla degenerazione di neuroni, in un’area chiamata Sostanza Nera (la perdita cellulare è di oltre il 60% all’esordio dei sintomi). Dal midollo al cervello cominciano a comparire anche accumuli di una proteina chiamata alfa-sinucleina. Forse è proprio questa proteina che diffonde la malattia in tutto il cervello. Il tremore non è presente in tutti i pazienti. All’esordio della malattia, spesso i sintomi non vengono riconosciuti immediatamente, perché si manifestano in modo subdolo, incostante. Talvolta sono i familiari o i conoscenti che incoraggiano il paziente a rivolgersi al medico quando si accorgono che qualcoa non va.
Vi sono evidenze scientifiche pubblicate che documentano come il ricovero riabilitativo per 4 settimane permette di conseguire un recupero funzionale fino al 50%. Occorre scegliere centri altamente specializzati per la riabilitazione che risulta fondamentale.