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 2014  maggio 03 Sabato calendario

UN GIORNO IN AFRICA

Ci sono i camerieri che arrivano a piedi al primo turno di mattina, sonnolenti, intirizziti dal freddo, sorridenti non ho mai capito se per natura o per contratto, nel lussuoso albergo di Sandton, Johannesburg. Sandton è chiamata “il miglio quadrato più ricco dell’Africa” e loro arrivano in giacchetta, in un’alba di ghiaccio.
C’è il canto del gallo che fa alzare centinaia di milioni di persone nelle loro capanne, dalle stuoie distese su pavimenti di terra battuta. Risvegli senza acqua, senza elettricità, senza un fornello da accendere con la leggera pressione di un bottone. Donne che stancamente attizzano il fuoco, bambini che indossano l’uniforme scolastica.
C’è una luce di speranza, un sole che si leva sul continente più povero e più ottimista del mondo, dal presente più incerto e più di ogni altro sicuro che il futuro sarà migliore. Un mondo che non ha niente in tasca e molto da insegnare, che manda i suoi figli a cercare fortuna sui nostri marciapiedi, ad additarci un avvenire comune che noi non riusciamo a vedere.
Noi siamo piccoli, rispetto all’Africa: cento volte più grande dell’Italia, e appena sedici volte più popolata. Pur eliminando dal conto il grande deserto che ne occupa tutto il nord - nove milioni di chilometri quadrati - resta pur sempre il continente degli spazi infiniti. Degli slum dove si affolla la povertà, delle colline coltivate passo a passo come nell’abitatissimo Ruanda; ma anche degli orizzonti apparentemente disabitati, delle savane dove la figura lontana di un cacciatore solitario appare come l’unica forma di vita. L’Africa mille volte violentata, l’Africa del perdurante boom demografico, è pur sempre, rispetto al nostro mondo esausto, un continente vergine. Il continente delle possibilità. Che lo rimanga ancora, dopo secoli di saccheggi e di violenze, testimonia la sua grandezza, la sua forza.
Questa grandezza ha ispirato nel tempo, invece che ammirazione e rispetto, ingordigia e volontà di rapina. Dapprima fu la semplice legge del più forte. I re del Congo che cinquecento anni fa si convertirono ammirati alla fede cristiana, scoprirono ben presto che gli uomini bianchi venuti alle coste dell’Africa sospinti dal vento, su meravigliosi velieri, volevano schiavi e avorio, e non fratellanza. Come riassume con sintesi geniale il vescovo sudafricano Desmond Tutu, sovversivo premio Nobel per la Pace: «Loro avevano la Bibbia, e noi la terra; adesso noi abbiamo la Bibbia e loro la terra».
Seguì l’ipocrisia della missione civilizzatrice, il “fardello dell’uomo bianco”, lo sfruttamento giustificato con la paradossale motivazione di rendere migliore la sorte degli oppressi. Infine, dopo un secolo di colonialismo, il mercato, le “ragioni di scambio” delle merci. Anche qui, direbbe Tutu, gli africani avevano le merci, gli occidentali il mercato. La “ragione” era tutta da una parte. Le foreste, le miniere, i giacimenti, le acque pescose hanno continuato a riversare le loro ricchezze lontano dall’Africa. E tuttavia il continente, che nel XXI secolo lentamente si va riappropriando di se stesso, rimane immensamente ricco, di risorse e di segreti.
«Soltanto di diritti di sorvolo, questo Paese vale un’immensa fortuna», mi disse un diplomatico a Kinshasa, capitale dell’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo. Il Paese era in guerra, Kinshasa era una metropoli allo stremo, gli ambasciatori giravano sotto scorta, non c’era un bianco che vi si avventurasse a piedi, negli uffici pubblici erano stati rubati perfino gli interruttori della luce (che del resto non c’era quasi mai). Eppure, seduto a bordo di una piscina al lume di una lampada a petrolio, protetto da guardie armate, quell’uomo mi fece quasi sottovoce un lungo elenco di ricchezze che il mio taccuino - era il 2001 - ancora conserva: «Uno spazio sconfinato, un crocevia obbligato; risorse minerarie immense» . Lo definì «uno scandalo geologico», «una quantità d’acqua smisurata: il serbatoio del mondo e un potenziale idroelettrico che potrebbe bastare all’intero continente, terre che si estendono a un incrocio ideale di latitudini e longitudini, opportunamente coltivate potrebbero sfamare tutta l’Asia».
Una volta liberata, l’Africa è rimasta in larga parte afflitta dai suoi tiranni e dai suoi errori. Piano piano, dove ha potuto, si è sbarazzata degli uni e degli altri e ha provato a cambiare il nostro sguardo accondiscendente. Ha vinto nelle più proibitive discipline dello sport. Ha studiato, lavorato, faticato. È rinata dalle proprie ceneri, a Kigali, a Mogadiscio, a Bamako. Ha promosso qui e là le sue donne ai vertici del potere politico e economico. Si è conquistata un posto nel mondo della creatività, della moda, dell’arte. Ha attirato turisti, sedotto donatori, conquistato cuori. Ha fatto timidamente notare che era da tempo maestra in ciò che noi stiamo soltanto adesso goffamente imparando: economizzare risorse, limitare consumi, riciclare sprechi, convivere con il proprio ambiente e con il proprio passato. Alla fine, ha ancora una volta piegato parzialmente la testa alla mentalità dominante e si è attirata consensi renitenti nel modo più vieto: con le performance dei suoi Pil, l’esibizione di una ricchezza questa volta domestica e non d’esportazione, il crescente appetito di nazioni che hanno qualche soldo da spendere e voglia di consumare. Oggi l’Africa convince investitori e accumula diseguaglianza.
Sopravviverà anche a questo. Nella sua infinità varietà, nei suoi opposti eccessi e nelle differenze estreme, nelle sue grandezze e nei suoi orrori, con i suoi picchi e i suoi abissi, l’Africa troverà una sintesi, equilibrio. Siamone certi, come lo sono gli africani. Perché questo è, secondo me, il segreto che tutti gli altri racchiude: è un continente di credenti. Dove la fede - nella vita, nel domani, negli spiriti degli antenati e nella volontà di Dio - è più forte, più accettata, più condivisa che ovunque altrove. Altrimenti non ce l’avrebbe fatta. Solo così l’Africa risorge, ogni giorno. E noi con lei.