Ranieri Polese, Corriere della Sera 5/5/2014, 5 maggio 2014
IL MONDO SALVATO DA BABETTE L’UMILTÀ SECONDO GIORDANO
Il nome intero, non abbreviato, della signora A. appare alla fine del breve romanzo di Paolo Giordano. È l’ultima parola del testo, la pronuncia il bambino Emanuele che i genitori hanno portato a vedere la tomba della donna che lo ha accudito nei primi otto anni di vita. Per tutto il libro, il narratore, sua moglie Nora, il figlio Emanuele la chiamano Babette, in ricordo del racconto di Karen Blixen, Il pranzo di Babette . Anche lei, come la cuoca della Blixen, aveva preparato un gran pranzo, invitando a casa sua, fuori Torino, i suoi datori di lavoro. Quando le avevano spiegato chi era Babette e le avevano raccontato la storia di quel pranzo, la signora A. si era commossa, nascondendosi il viso con il grembiule per non farsi vedere.
Il nero e l’argento (che esce domani per Einaudi) si apre con la notizia della morte della signora A., uccisa da un tumore che dai polmoni si è propagato troppo in fretta a tutto l’organismo. Da oltre un anno non andava più a servizio, era stanca, la terapia l’aveva debilitata, non se la sentiva più di guidare la macchina. Piano piano aveva dovuto rinunciare anche alle telefonate, e alla fine, poco prima della morte, una cugina l’ha portata in casa sua, dove ha passato gli ultimi giorni, magra e senza più forze, in un letto troppo grande. Ultima discendente di una illustre dinastia di cameriere immortalate dalla grande letteratura — Mariette, la servante au grand coeur di Baudelaire, Félicité di Un cuore semplice di Flaubert, Françoise ovvero Céleste Albaret di Proust e naturalmente la cuoca Babette — la signora A. s’impadronisce del romanzo di Paolo Giordano, diventandone la vera, indimenticabile protagonista.
È lei il centro della famiglia, ha assistito Nora costretta a letto negli ultimi mesi di gravidanza, ha tirato su il piccolo Emanuele (che comincia a camminare con lei, non con i genitori), vizia e coccola con speciali piatti cucinati apposta l’uomo di casa quando d’estate rimane solo a lavorare in città. È precisa, tiene gli scontrini della spesa e se li fa rimborsare subito. Sa bene cosa e come si deve fare, non sembra incline a confidenze eccessive. Si sa che è vedova da tanto tempo, che il marito, un rigattiere con qualche pretesa di antiquario, è morto giovane per una grave insufficienza renale. In quel pranzo con cui si merita il nome di Babette, i suoi datori di lavoro scoprono una casa piccoloborghese, molto pulita, un po’ kitsch, con il servizio di piatti buono e i calici dal bordo dorato su una tavola perfettamente apparecchiata.
Il romanzo, con il suo titolo programmatico, tra la medicina galenica e l’alchimia (il nero è l’umore malinconico, biliare di lui; l’argento è l’elemento lunare, femminile), sembra volerci raccontare il rodaggio di una giovane coppia in un’epoca che si è sbarazzata dei vecchi ruoli moglie e marito, madre e padre, donna e uomo. Tutto si gioca sull’autenticità, ogni volta si richiedono sincerità, spontaneità, niente dev’essere dato per scontato. Ma così è un continuo mettersi alla prova, per lui, ricercatore di fisica che a un certo punto rifiuta una borsa di studio a Zurigo per restare con la famiglia, e per lei, arredatrice, che non sempre riesce a star dietro al suo lavoro. In questa relazione è la signora A. che detta il ritmo del quotidiano.
All’inizio, scrive Giordano, lei serve alla giovane coppia come testimone del loro amore («ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso»). In realtà è molto di più. Per lei i tre «estranei» finiscono per nutrire un affetto assolutamente più forte che non quello per i rispettivi parenti, peraltro poco affettuosi (almeno la madre di lei, separata e poi risposata; di lui non si citano mai né genitori né altri congiunti). Si crea insomma un rapporto di difficile definizione, in cui non si capisce chi adotta chi. O meglio, lo si vede bene molto presto: i tre, padre madre e figlio, si sono lasciati adottare e inconsapevolmente vivono l’attaccamento per una madre, acquisita ma pur sempre madre: un tipo di legame di cui la vita precedente non li aveva provvisti.
Succede così che «la storia di un amore giovane» (come si legge nel risvolto di copertina) lascia il posto alla storia di A., al suo concreto buon senso venato da ataviche superstizioni (ogni mattina alla radio ascolta l’oroscopo), alla sua fedeltà, al suo affetto non dovuto e non dettato da legami di sangue né di latte (curiosamente, Giordano usa due volte la parola balia, una per la signora A., un’altra per Teresina, la donna di servizio di quando era piccolo). La giovane coppia avrà i suoi alti e bassi, ma la fedeltà della signora A. non è mai in discussione. Quando se ne andrà, sarà per colpa della malattia. Un male annunciato da un presagio: la signora A. aveva visto uno strano uccello variopinto. L’uccello del paradiso, le aveva detto il vicino, un pittore. Ma subito l’aveva messa in guardia: quell’uccello porta disgrazie e morte. Lei, intanto, l’aveva anche sognato quell’uccello, «quella specie di pappagallo» (curiosa coincidenza: Félicité, la serva dal «cuore semplice», nel racconto di Flaubert teneva un pappagallo, che una volta morto era stato impagliato). Intanto comincia la trafila di esami, Tac, visite dall’oncologo a cui la signora A. viene accompagnata dai suoi parenti adottati. Nora poi la aiuta a comprarsi una parrucca, nell’attesa che la chemioterapia faccia cadere i capelli. Ora il rapporto si è ribaltato: è lei a essere accudita, incoraggiata, servita. Non si sa fino a che punto la signora A. sia grata e contenta di tutte queste attenzioni. Di certo la giovane coppia prova, forse per la prima volta, un attaccamento profondo, il senso di un’appartenenza, un dolore vero.
Come per un salto di corsia, un’improvvisa sterzata, il romanzo di Paolo Giordano passa dalla «storia di un amore giovane» all’elegia in morte di una signora amica. Un cambio di rotta non sappiamo quanto volontario e consapevole: sembra quasi che la signora A. sia uno di quei personaggi che impongono la loro presenza all’autore, lo condizionano, gli cambiano trama e ordito del lavoro. E il risultato è qualcosa di inatteso, ma certo è un’opera toccata da un’infinita grazia, dove agisce una segreta, dolente sensibilità. Ci sono notazioni acutissime sulle strane asimmetrie di questo rapporto: la signora A., nella casa dove è a servizio, non si siede mai a tavola pur essendo diventata una di famiglia; al funerale, i giovani non seguono il feretro al cimitero, sentendo che l’essere solo «i datori di lavoro» li esclude da una intimità che riguarda soltanto i parenti.
Nei mesi della malattia, quando la signora è ancora a casa sua, i giovani vanno a trovarla, e lei apre per loro la stanza segreta, dove ha conservato alcuni pezzi rimasti del commercio del marito. Dopo morta, due mobili anni Venti vanno in eredità alla giovane coppia. E dal buffet, come un messaggio misterioso ed enigmatico, vengono fuori dei ritagli di giornale che il marito della signora A. aveva raccolto a riprova della sua credenza nei complotti. Dettagli, i mobili e quei giornali, poveri resti di una vita fin troppo comune, che comunque pretende di parlarci ancora dopo la fine. La visita dei tre «orfani» al cimitero chiude il libro: ed è l’omaggio per uno dei personaggi più belli dei libri letti in questi anni.