Massimo Franco, Corriere della Sera - La Lettura 4/5/2014, 4 maggio 2014
IL POPOLO O LO STATO LE CHIESE DI BERGOGLIO
C’è un’involontaria contraddizione nel fatto che il Salone del libro di Torino ospiti uno Stato estero, la Santa Sede, ritornata in auge nel segno di un Pontefice incline a smontare la dimensione statuale di questa istituzione. L’immagine della cupola di San Pietro ricostruita con un mosaico di pagine è efficace. E la quantità di pubblicazioni portate dalla Libreria editrice vaticana, dai Musei, dall’Archivio segreto, dagli uffici che stampano francobolli e coniano monete, è destinata a trasmettere una sensazione di potenza anche culturale e letteraria. Il numero di saggi e biografie su Papa Bergoglio è tale da far pensare a un’inflazione inarrestabile e inevitabile, visto il successo popolare. E l’«effetto Francesco» è una sorta di sottotitolo tacito di ognuna delle manifestazioni. Eppure, il Pontefice argentino, assente ma onnipresente nei dibattiti che cominciano l’8 maggio, appare un’icona issata un po’ d’ufficio sulla manifestazione: quasi incollata su una cornice già prestabilita, per garantire un successo ancora più grande. La sola idea di essere percepito come un sovrano, infatti, gli è abbastanza estranea: si è visto perfino domenica 27 aprile, quando celebrava la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Il diaframma collettivo di capi di Stato e di nomenklatura ecclesiastica che lo separava dalla folla sembrava frenarne il buonumore. Le parole sui due predecessori sono state ridotte all’essenziale. Su un piano più generale, la sensazione è che nella sua «teologia del popolo» di stampo latinoamericano, una certa cultura italiana e curiale, impastata di erudizione ed elitaria quasi per antonomasia, si inserisca come un’esperienza a lui estranea, se non sgradita.
Francesco è una sorta di Papa global-popolare, che non sceglie un interlocutore escludendo gli altri, né si lascia scegliere: un atteggiamento un po’ diverso da quello di una Curia che tuttora, almeno nei livelli intermedi, è tentata di definire «graditi» o «non grati» alcuni autori, a seconda del grado di subalternità che esprimono. L’accessibilità è una chiave che fa apparire la sconfinata pubblicistica sul Pontefice non solo la conseguenza di una personalità nuova, spiazzante e dunque studiata e analizzata senza tregua. È anche il prodotto di un papato da internet, «orizzontale», più da rete che da salone librario; più da pulpito di piazza che da dibattito in salotto.
L’approccio di Jorge Mario Bergoglio è distante da quello del Cortile dei Gentili, gli incontri rarefatti organizzati durante la stagione di Joseph Ratzinger dal «ministro della Cultura» del Vaticano, Gianfranco Ravasi, regista del padiglione torinese: iniziative che sembrano più una coda del «papato intellettuale» di Benedetto XVI, che non l’incarnazione di quello francescano. La presenza di questo particolarissimo «Stato estero» come ospite d’onore a Torino potrebbe dunque diventare, per paradosso, l’occasione per misurare sintonie, distanze e assonanze tra il Papa e la Roma pontificia; tra la sua idea di Vaticano impregnato dallo «spirito di Casa Santa Marta», anticamente pensata come lazzaretto per malati di colera, dove vive, e l’eterna mentalità «istituzionale», «governativa» e «romana» che sta cercando disperatamente di cambiare; tra il «modello latinoamericano» e una cultura cattolica che rimane tuttora corazzata nel suo eurocentrismo, nonostante il Conclave.
È un guscio mentale che Victor Manuel Fernandez, rettore della Universidad Catolica Argentina di Buenos Aires, e alter ego di Bergoglio nella megalopoli, ha additato di recente come un ostacolo per il Papa argentino. Il rettore della Uca ha ritenuto di cogliere in una vecchia intervista di Ravasi nel 2013 gli indizi di una persistente differenza di opinioni sul pontificato. Secondo monsignor Fernandez, la tesi del cardinale era che «un Pontefice latinoamericano può essere eletto una volta, ma poi bisogna tornare a qualcuno in grado di esprimere la cultura europea»; e che sarebbe «necessaria maggiore elaborazione culturale da parte di Francesco, contrapponendo l’elemento nazionalpopolare bergogliano al rigore teologico e scientifico dei “pastori occidentali”, intesi come europei. Il Papa sa — assicurava Fernandez — che questa ottica eurocentrica persiste, nella Curia e anche altrove». Certamente, lo sforzo generoso che il Vaticano ha fatto e farà a Torino metterà in ombra questi potenziali malintesi. Ma rimane il sospetto che Francesco guardi da lontano il modo in cui sarà presentato il profilo del «suo» Stato.
Eppure saranno presenti esegeti qualificati del suo pensiero come il gesuita Antonio Spadaro, direttore di «Civiltà Cattolica», il quindicinale della Compagnia di Gesù, che ha curato la raccolta delle omelie mattutine del Papa a Santa Marta. E parteciperà al Salone il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, «primo ministro» della Santa Sede e stretto e apprezzato collaboratore di Francesco. Il contesto, tuttavia, rimane connotato da una forte «italianità» che riflette la realtà vaticana precedente al Conclave, e non la determinazione di Bergoglio e dei suoi «grandi elettori» degli episcopati mondiali di renderla sempre più internazionale. Soprattutto, potrebbe risultare appena accennata quella profonda impronta sudamericana senza la quale è difficile comprendere il papato dell’ex arcivescovo di Buenos Aires; le dinamiche che hanno portato alla sua elezione; e il carattere «missionario» che il cattolicesimo americano australe si attribuisce rispetto a un’Italia e a un’Europa considerate secolarizzate ed esangui.
Probabilmente era inevitabile: tredici mesi e poco più di pontificato sono stati molto significativi e innovativi sul piano dei gesti. Ma per cambiare la mentalità, le strutture, e riplasmare lo Stato papalino occorrerà più tempo: sebbene risulti sempre più chiaro che la sfida anche culturale di Papa Francesco sarà vinta solo se riuscirà a vincerla a Roma.