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 2014  maggio 04 Domenica calendario

SALINGER E COMPAGNIA BELLA LA FABBRICA DELL’ETERNITÀ


L’uomo che escogitò l’immortalità nacque a Park Avenue, era mezzo ebreo e aveva un’attitudine al romanticismo. Sfidò Dio con una manciata di libri e con un pugno di ossessioni che si placarono due anni prima dall’ultimo respiro, quando vendette l’anima all’eternità e seppellì l’oblio. Si chiamava J. D. Salinger, faceva lo scrittore.
Preparò la sua uscita di scena ribaltando le leggi terrene: escogitò un Trust, una fondazione a suo nome, che dichiarò unica erede dei suoi diritti d’autore e a cui consegnò il segreto: i manoscritti che aveva concepito al riparo dall’umanità. Li aveva pensati e creati in quel fortino sulla collina di Cornish che lo difese dalla malizia dei suoi pari e dalla curiosità del mondo. È l’inchiostro più prezioso della storia della letteratura, esiste. Riposa nella cassaforte del Salinger-Trust e uscirà tra il 2015 e il 2020 con cadenza non regolare. Il lascito del padre di Holden è questo e permetterà di dare seguito al cosmo di Caufield e di tutto l’alfabeto narrativo dell’autore dei Nove racconti . Così l’uomo che si faceva chiamare Jerry è andato oltre la gloria e il ricordo. Ripartorendo la propria nascita. È il nucleo di Salinger. La guerra privata di uno scrittore , di David Shields e Shane Salerno (Isbn edizioni), l’opera definitiva sulla vita e sui misteri dell’eremita che con un assaggio di pubblicazioni ridefinì i confini di fama e invisibilità. La biografia di Shields e Salerno (che ne ha tratto un documentario) approfondisce la figura di Jerry e scoperchia il mito che Salinger aveva custodito grazie alla discrezione della comunità di Cornish.
Ora ci siamo, ora potrebbe completarsi il codice di Holden, dei pescibanana, della famiglia Glass e di tutti quei figli che Jerry considerava più che figli. La fondazione Salinger nega la futura pubblicazione, testimonianze e documenti raccolti nella biografia sottoscrivono il contrario: sono le voci delle ex conviventi che hanno battuto a macchina i manoscritti occulti, degli amici più intimi, delle lettere ritrovate, delle persone un tempo vicine all’uomo che sfidò il divino.
Lacrime, libertà, e vattelapesca
Nel gennaio del 1951 J. D. Salinger riceve una lettera proveniente dal «New Yorker»: è il rifiuto alla pubblicazione de Il giovane Holden . Jerry ha una venerazione per il «New Yorker» e una visceralità con Holden. Sceglie il suo protagonista e non accetta la motivazione del giornale che ha bollato il romanzo come troppo artificiale e dai toni eccessivi (rimasero indigeste espressioni come «vattelapesca» e «compagnia bella»). Decide attraverso la sua agente di inviarlo alla Harcourt che legge subito il manoscritto. Dopo una serie di discussioni interne, Salinger viene convocato in casa editrice, viene fatto accomodare in un grande ufficio e gli viene chiesto se Holden fosse pazzo. Jerry rimane immobile, fissa una delle finestre, non dice una parola mentre il direttore editoriale gli domanda se fosse disponibile a riscrivere l’opera. Finisce a malapena la frase, di colpo si accorge che Salinger sta piangendo.
Ferire Holden è ferire Salinger e molto di più: significa violare l’innocenza del mondo. La Harcourt profanò una libertà, una generazione e il futuro dei figli che sarebbero venuti. Commettendo, tra le altre cose, l’errore editoriale più grave della sua storia. Sarà la Little, Brown & Co. a pubblicarlo e a intascarsi i milioni di copie che ne verranno.
Lo scrittore newyorkese non vacillò mai quando gli editori provarono a cambiare i connotati al suo personaggio, nemmeno alle reazioni sconcertate di qualche lettore a pubblicazione avvenuta. Sapeva che Holden Caufield era, come nel libro, la mosca bianca che avrebbe guidato le mosche nere. Sapeva che si sarebbe fatto largo con timidezza, acciuffando gli altri bambini che rischiavano la corruzione adulta. In quell’ufficio della Harcourt, il karma del personaggio si completò nel suo genitore. J. D. dovette solo difenderlo, allora e nel tempo che sarebbe venuto. La prima forma di immortalità di Salinger fu la sua autoconsapevolezza. La pazzia divenne liberazione, e compagnia bella.
Tradimento di Charlot,
eternità della mancanza
C’è una ferita primordiale in Jerry Salinger che lacera ogni suo libro. Si chiama Oona O’Neil. È la figlia di Eugene O’Neil, commediografo e Nobel per la letteratura. Salinger la conosce nell’estate del 1941 e perde la testa. Lui ha modi gentili, un savoir faire d’altri tempi e un istinto narrativo prestato alla galanteria. È uno spaccone di spirito. In più ha già pubblicato su riviste che contano. Lei è un bocconcino con cervello, in procinto di sbocciare: «Sapevo che sarebbe diventato uno scrittore. Me lo sentivo», dirà qualche anno dopo Oona e confessò che il loro secondo appuntamento fu a Central Park, davanti allo stesso laghetto con le anatre che segneranno la ribellione di Holden.
Daranno vita alla coppia che mette insieme due preludi, Oona si presta a diventare un’attrice alla ribalta, Jerry ha le scintille delle storie che scriverà di lì a poco. Si frequentano per circa un anno in una sostanza sentimentale che lievita diversamente. La passione brucia per entrambi, in Salinger si trasforma in un sodalizio interrotto dalla chiamata alle armi. Parte e non sa che le pallottole da schivare sarebbero venute da Hollywood dove Oona si trasferisce in cerca di successo. È qui che viene assediata da attori, registi, produttori che la pretendono privatamente, lei resiste e risponde alle lettere «seducenti, squisite, incantevoli» di Salinger. Poi arriva un uomo diverso dagli altri, la corteggia con una delicatezza infantile e allo stesso tempo adulta che la riporta a un padre sfuggente. Oona ha già visto quest’uomo al cinema, tutti l’hanno visto al cinema, recita con la pelle incipriata di bianco, una lacrima dipinta sulla guancia, la bombetta e le scarpe più grandi di tre taglie. Charlot.
Oona interrompe di colpo la corrispondenza con Salinger che non si dà pace, è all’oscuro di tutto, rimane intrappolato sul fronte finché un suo commilitone gli porta un giornale: in prima pagina c’è la sua fidanzata con un uomo che le porge un anello da matrimonio. Charlie Chaplin. È il momento che ridefinisce il codice narrativo di Salinger. Da quel momento Jerry pretenderà l’identità di Oona O’Neil in ogni donna che avrà accanto. Accadrà con Sylvia la sua prima moglie e con Joyce Maynard, la scrittrice di cui si innamorò dopo averla vista sulla copertina del «New York Times». Saranno tutte giovanissime, i capelli scuri, un’aria innocente e sensuale, custodiranno tutte un desiderio di protezione. Ognuna sarà sedotta attraverso le lettere, la stessa corrispondenza che Oona abortì. Con loro Salinger ritrova il tempo perduto, sovverte la caducità, attraverso di loro comincia a inseguire l’eterno. E a far suo il silenzio catartico di Holden. «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti».
Là sulla collina,
a caccia di pescibanana
Il fucile è l’altra penna di Salinger. La guerra, lo sbarco in Normandia, l’uniforme che mette ordine all’esistenza. Jerry decide di violare la purezza nel modo più estremo, tra le budella del mondo e ai confini dell’umano. Lo spirito bellico di Salinger sta nella sua autoconsapevolezza: sa che nessuno è esente dalla perdita del candore, nemmeno i suoi personaggi che manderà incontro alle doglie di una formazione. È il sacrificio che santifica.
Jerry è nell’esercito dal ’42 al ’46, quarta divisione. Viene notato per meriti sul campo, per la disciplina, per l’efficacia. Per una strana forza che lo rende audace e allo stesso tempo brillante, «Ho una tale voglia di ammazzare che non riesco a star fermo. Buffo, no? Proprio io che ho sempre avuto questa fama di pavido. È tutta la vita che evito le scazzottate, che ne esco grazie alla mia sciolta parlantina. Adesso voglio regolare tutti i conti a suon di fucilate». Lo fa dire al protagonista de Last Day of the Last Furlough , comparso sul «Saturday Evening Post», nel 1944. È qui che si consolidano le ombre dei futuri racconti, della famiglia Glass e la disperazione gentile dei pescibanana. È questo il territorio del diavolo di J. D. Salinger. Attraverso l’esercito conosce Paul Fitzgerald, suo compagno nell’unità dei Corpi di controspionaggio.
Fitzgerald sarà una delle poche persone a seguirlo per tutto il corso della sua vita, diventerà una delle testimonianze indirette del mistero-Salinger. Passerà a trovare Jerry di tanto in tanto, tra loro resisterà una fitta corrispondenza. È anche in queste lettere, raccontate nella biografia di Shields e Salerno, che emerse quanto Salinger avesse scritto senza pubblicare. I due amici avevano in comune l’amore per i rituali e l’uso della nostalgia, eredità militari e fondamenta della solitudine salingeriana. La guerra fu questa assenza, un rumore bianco che lo attraversò anche dopo il congedo, là, sulla collina di Cornish dove si rinchiuse per scrivere con una tuta di tela che portava come un’uniforme.
La mano di Dio nel campo di segale
L’ultima fotografia rubata di Salinger risale al 2008, due anni prima della morte. È appoggiato a un bastone, in mezzo alla strada, i capelli d’argento e l’ossatura di un uomo che è stato forte. Sembra distratto, è una distrazione felice, quasi infantile.
Sessanta anni prima, alla ragazza che gli ispirò il suo racconto perfetto, Per Esmé : con amore e squallore, scrisse: «Dici di sentirti ancora una quattordicenne. So come ci si sente. Io ho trentaquattro anni e passo troppo tempo a sentirmi ancora come un Holden Caulfield sedicenne». È questa fame di infanzia che lo portò a isolarsi dal mondo, e a votarsi alla spiritualità. Salinger era un adepto della religione Vedanta. La studiò dagli anni Quaranta quando si addentrò nelle filosofie orientali e inseguì alcuni propositi della dottrina indiana: diventare un capofamiglia, sposarsi, procreare e sostenere una famiglia. Fece tutto più e più volte, intensificò la pratica del suo vangelo nelle meditazioni quotidiane e nell’igiene della coscienza. Costruì un bunker separato nel suo terreno a Cornish e ci andò a scrivere per settimane senza vedere moglie e figli. Vietò a se stesso qualsiasi contatto, l’unica eccezione erano i suoi personaggi che diventarono l’affetto. Con loro fu il padre di famiglia e li difese dal mondo, adottando uno dei principi fondamentali Vedanta: l’addio a qualsiasi forma di gloria. La ricompensa era la giusta reincarnazione.
Così J. D. Salinger legittimò la psicosi dell’assenza, concependo il mistero più efferato della storia della letteratura. Divinizzò se stesso, i pochi libri pubblicati e gli ipotetici futuri. Creò la devozione dell’attesa che potrebbe terminare il prossimo anno, con l’uscita del suo primo manoscritto incentrato sui Glass o sui Caufield. Si parla anche di un manuale di Vedanta, e di un lungo romanzo di guerra. L’immortalità programmata è matura, è adesso, ma nasce molto prima: si insinua nel campo di segale in cui Holden sogna di salvare i bambini che stanno per cadere nel burrone degli adulti. Li afferra uno a uno con la sua mano divina, ci libera, e dà al mondo la possibilità di un’altra innocenza.