Sergio Romano, Corriere della Sera 4/5/2014, 4 maggio 2014
VOTO DEI CONNAZIONALI NEL MONDO LE ORIGINI DI UNA CATTIVA LEGGE
Una quarantina di anni fa, un esponente locale della Democrazia cristiana, mi ha confidato che il partito, fin dai tempi della Costituente, si era fermamente opposto al voto degli «italiani nel mondo», ritenendolo di difficile gestione. Preso atto delle recenti prove date da alcuni eletti nelle circoscrizioni estere del nostro Parlamento, sia pure con motivazioni diverse, direi che l’intuizione di allora era stata opportuna. Che cose ne pensa?
Andrea Franco
Caro Franco,
Le riserve e le obiezioni erano almeno due. In primo luogo gli italiani all’estero, se avessero votato per corrispondenza, avrebbero inviato la loro scheda al Comune in cui avevano vissuto prima di lasciare l’Italia; e in molti casi, soprattutto al Sud, la loro partecipazione avrebbe prodotto risultati che non corrispondevano alla realtà locale. In secondo luogo era molto diffusa la convinzione che il voto avrebbe rispecchiato i diversi umori e pregiudizi delle comunità italiane all’estero. Quelle europee avrebbero votato prevalentemente a sinistra; quelle delle Americhe avrebbero votato per la Democrazia cristiana, ma anche per il Partito monarchico e per il Movimento sociale italiano. Era meglio quindi garantire il diritto di voto, magari con qualche facilitazione per il viaggio, soltanto a coloro che sarebbero venuti in Italia.
La situazione cominciò a cambiare negli anni Settanta, quando l’emigrazione divenne nuovamente, come in epoca fascista, un tema nazional-popolare. Piaceva a una certa sinistra perché rafforzava la tesi dello Stato ingrato e patrigno che costringe i propri figli a lasciare la patria per cercare il pane all’estero. Piaceva alla destra neofascista perché riteneva che l’autunno caldo e gli anni di piombo avessero creato, soprattutto nelle Americhe, un potenziale bacino elettorale per le sue ricette «patriottiche» e autoritarie. Per rafforzare i legami con «l’Italia fuori d’Italia» vennero finanziati programmi educativi per le comunità all’estero e fu adottata una legge che garantiva la nazionalità italiana anche a chi era straniero da qualche generazione. Ma il voto per corrispondenza (la più logica e la più diffusa delle pratiche possibili) continuava a suscitare le solite riserve.
Lo scoglio fu aggirato, come sappiamo, con la creazione di enormi collegi elettorali esteri. La soluzione non piacque a coloro che, avendo pratica d’emigrazione, erano in grado di anticipare gli inconvenienti. E preoccupò molti governi stranieri a cui non piaceva che gli uomini politici italiani venissero a fare campagna elettorale nei loro Paesi per cercare i voti di persone che avevano anche la cittadinanza locale. Anche fra gli uomini politici vi era molto scetticismo e vi furono voci che andarono coraggiosamente contro corrente, come quella di Ugo Intini. Ma tutti i maggiori partiti, alla fine, furono preoccupati dalla possibilità che il merito della legge andasse ai loro avversari. Abbiamo una brutta legge, caro Franco, perché la classe politica, come in altre circostanze, decise che era meglio sbagliare insieme piuttosto che avere ragione in minoranza.