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 2014  maggio 04 Domenica calendario

TENER CHIUSO IL COLOSSEO NON DIFENDE IL LAVORO

Un sindacato scivolato in commedia. I leader delle tre sigle nazionali non sanno come concludere il rinnovo del contratto e continuano però ad autorizzare astensioni dal lavoro quasi sempre collocate di venerdì. Le occasioni di maggiore visibilità sono gli scioperi dei supermercati contro le aperture festive, il divieto di accesso ai musei nei giorni di maggior appeal turistico (come accaduto al Colosseo il Primo maggio) e il blocco del trasporto pubblico locale. Sarebbe però sbagliato trarre la conseguenza che il sindacato è inevitabilmente condannato a sparire. Non solo perché la sola Cgil raggiunge 5,7 milioni di tesserati. Ma soprattutto perché l’evoluzione delle economie del capitalismo vecchio e nuovo è tutta da scrivere.
Alla vigilia dell’apertura del congresso nazionale della Cgil l’intero sindacato italiano sembra come stretto da una tenaglia. Da una parte c’è l’offensiva della politica che non solo non riconosce più il ruolo della concertazione e dell’annesso potere di veto ma sta illustrando un’altra idea della società di mezzo. Un’idea solo abbozzata nella quale tra il cielo delle istituzioni e il cittadino ci sono i sindaci, i social network e la comunicazione tambureggiante.
La forza di quest’offensiva non consiste tanto nella compiutezza del disegno quanto nell’incrociare una sensibilità assai diffusa che chiede semplificazioni e riduzione delle procedure a tutti i livelli, compresa la rappresentanza degli interessi. E chiunque bazzichi le organizzazioni dei lavoratori (e delle imprese) sa che quelli esistenti sono tutt’altro che organismi «piatti». Per dirla più brutalmente e per limitarsi a un solo esempio, se si sottoponesse a un referendum popolare la proposta Renzi-Madia di tagliare drasticamente i permessi sindacali nella pubblica amministrazione il sì trionferebbe.
L’altro braccio della tenaglia sta in una progressiva perdita di aderenza ai mutamenti del lavoro e dell’economia reale. Al centro logistico Amazon di Piacenza non esiste il sindacato perché nessun dipendente under 35 ha chiesto di costituirlo, nei lavori più pesanti della logistica (facchinaggio) chi mena la danza sono i Cobas, non parliamo poi del rapporto del sindacato con l’universo delle partite Iva e dell’occupazione intermittente. Aggiungo che il lavoro autonomo è considerato ancora una variante negativa di quello dipendente e che nessun monitoraggio è partito sulla realtà dell’auto-impiego dei giovani (uno su quattro).
Anche nel corpaccione sindacale molti sono gli slittamenti in corso: aumenta il peso, oltre che dei pensionati, delle categorie del terziario e diminuiscono, per via della crisi, gli iscritti dei settori industriali. Va da sé che queste novità comportano anche una diminuzione della forza sindacale tradizionale quella che piaceva tanto agli operaisti («la rude razza pagana») e ciò porta con sé che le occasioni di maggiore visibilità sono gli scioperi dei supermercati contro le aperture festive, il divieto di accesso ai musei nei giorni di maggior appeal turistico (come accaduto al Colosseo il 1° maggio) e il blocco del trasporto pubblico locale. Qui siamo arrivati addirittura alla commedia: i leader dei tre sindacati non sanno come concludere il rinnovo del contratto e continuano però ad autorizzare astensioni dal lavoro quasi sempre collocate di venerdì e che si susseguono speranze visto che le controparti (le varie Atac o Atm) nella stragrande maggioranza dei casi non hanno i soldi per chiudere il negoziato. Segni di declassamento li si notano anche nella produzione intellettuale del sindacato, in passato accanto ad analisi cervellotiche dei mutamenti del capitalismo i centri studi sfornavano anche inchieste di notevole interesse sulle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro. Oggi anche quando le confederazioni pubblicano un dossier lo fanno adottando il «Cgia Mestre style»: puntano a strappare qualche titolo sui giornali o nei tg.
Sarebbe però sbagliato dall’insieme di queste considerazioni trarre la conseguenze che il sindacato è inevitabilmente condannato a sparire e non solo perché — tanto per ricordarlo — la sola Cgil raggiunge 5,7 milioni di tesserati. Ma soprattutto perché l’evoluzione delle economie del capitalismo vecchio e nuovo è tutta da scrivere, basta pensare al ruolo che ha avuto lo United Auto Workers nel risanamento della Chrysler oppure alla possibilità che nuove forme di organizzazione e tutela maturino persino in Cina dove le aspettative dei lavoratori stanno già producendo un costante aumento dei salari e prime politiche di welfare. La società da quando Margaret Thatcher ne aveva decretato a tavolino la non-esistenza ci ha sorpreso cento volte e continuerà a farlo.
Detto questo è evidente che il sindacato italiano ha bisogno per tornare in partita di un profondo rinnovamento. I gruppi dirigenti paiono stanchi e in qualche caso palesemente demotivati. Le confederazioni sono macchine estremamente complesse alle quali una spending review farebbe solo del bene. Se però dalle questioni organizzative passiamo ai contenuti l’unica considerazione sensata che si possa avanzare è che una nuova stagione del sindacato non si può inventare a tavolino. Bisogna partire dalle esperienze e come tali quelle che recano con sé un margine interessante di innovazione provengono dalla contrattazione aziendale. Nei luoghi di lavoro il dialogo con le controparti non si è affatto interrotto e ha prodotto persino negli anni della Grande Crisi risultati interessanti. Basta esaminare una raccolta di accordi raggiunti in fabbrica per trovare intese sul welfare aziendale, sulla produttività, sulla polivalenza e anti-assenteismo, che parlano un linguaggio del tutto nuovo. Costruiscono dal basso inediti parametri di scambio con un ampio consenso dei lavoratori, laddove invece nella retorica sindacale romana sembra sempre che ogni discontinuità contrattuale debba per forza fare a pugni con il consenso degli operai. Forse è da queste esperienze che bisogna ripartire.