Antonio Pascale, Corriere della Sera 4/5/2014, 4 maggio 2014
LE APP CHE INSEGNANO A FIDARSI
Una serie di nuove applicazioni per smartphone, oltre a vari siti specifici, promuovono e moltiplicano una tendenza: fidarsi degli altri. Per esempio: devo andare in aeroporto, ho un posto libero in auto, se qualcuno è interessato gli offro un passaggio. Certo non so chi si siederà accanto me — sarà un perfetto sconosciuto — ma sono tranquillo: mi fido. È chiaro che il sentimento della fiducia promuove la conoscenza tra gli individui e fonda, o almeno contribuisce a innescare, una sorta di economia della condivisione.
Qualche tempo fa un articolo su Wired American ha affrontato un tema di fondamentale importanza per la modernità: la fiducia. Una serie di nuove applicazioni per smartphone, oltre a vari siti specifici, promuovono e moltiplicano una tendenza tipica di noi sapiens : quella di fidarsi degli altri. Per esempio, per restare nel campo delle nuove applicazioni: devo andare in aeroporto, ho un posto libero in macchina, se qualcuno è interessato gli offro un passaggio. Certo non so chi si siederà accanto me — sarà un perfetto sconosciuto, uno di cui ignoro nome, cognome, professione, stato civile e fedina penale — ma sono tranquillo: mi fido. È chiaro che il sentimento della fiducia promuove la conoscenza tra gli individui e fonda, o almeno contribuisce a innescare, una sorta di economia della condivisione. Abbastanza variopinta e sfumata, possono infatti trovarvi posto varie forme di collaborazioni economiche, dal semplice scambio d’oggetti, stile baratto, ad altre e più complesse.
Ora, noi parliamo spesso di fiducia, di altruismo, di bontà ecc., e per molto tempo questi sentimenti sono apparsi speciali, come se fossero collocati in una particolare sfera, pura e incorrotta. Poi esperimenti condotti nell’ambito della psicologia cognitiva hanno analizzato e scomposto le suddette qualità. È abbastanza noto tra gli addetti ai lavori l’ultimatum game . Due concorrenti, A e B. Ad A viene assegnata una somma di denaro, 100 euro, con un’unica prescrizione: deve devolvere una parte della somma a B. Quest’ultimo può rifiutare l’offerta, magari perché la giudica non congrua o micragnosa e, in questo caso, A perderà l’intera somma. Se dovessimo comportarci razionalmente (ed egoisticamente) allora A dovrebbe consegnare a B una somma bassa e B, dal suo punto di vista, dovrebbe comunque accettarla, visto che poco è meglio di niente. È interessante notare come questo gioco — ripetuto più volte, quindi sottoposto a verifica sperimentale — mostra che A è disposto a offrire a B fino al 40% della cifra. In caso contrario B, di solito, giudica l’offerta non congrua, e rifiuta.
L’ultimatum game , e in genere i giochi di simulazione, evidenziano come la nostra specie (e non solo, esperimenti simili sono stati svolti sulle scimmie cappuccine), ritenga più razionale collaborare con gli altri — spesso perfetti sconosciuti. L’altruismo (la tendenza a rischiare per gli altri o sacrificarsi) è un modo per formare legami, o acquisire identità e posizioni sociali di rilievo, insomma conviene. Dunque, l’altruismo, la bontà ecc, alla luce delle nuove acquisizioni possono essere meglio definiti sotto la voce: egoismo ritardato. Sia come sia, non c’è dubbio che i social e le varie applicazioni ci stanno abituando a uscire dalle ristrettezze del villaggio e dal rapporto a tu per tu (lo conosco, mi fido), e così ogni giorno condividiamo le nostre idee, i progetti, i desideri con persone di cui a stento conosciamo il nome.
Conviene sempre? Un po’ è necessario, visto che i prodotti economici che consumiamo nascono da una collaborazione globale. Oggi chi crede di essere un’isola autarchica è destinato al fallimento, al contrario chi è capace di innovare e creare è anche più disposto ad ascoltare e lavorare con gli altri. Non mancano in queste nuove ed estese dinamiche gli imbroglioni e sempre più spesso veniamo a conoscenza, per esempio, di siti che promuovono la reciproca fiducia, ma alla fine risultano ingannevoli, vere e proprie truffe. Nemmeno sono da sottovalutare i problemi che inevitabilmente si vengono a creare quando, trasportati dall’onda della fiducia, interagiamo non con una persona fisica, più o meno concreta, raggiungibile, ma con un avatar lontano, un ente astratto. Nel futuro, proprio per lasciarsi alle spalle il vecchio detto, tra l’altro, così comune (e dannoso) in Italia, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio (che presuppone che il prossimo sia nella maggior parte dei casi un imbroglione) sarà necessario sviluppare un metodo d’analisi della fiducia. Così, per accertarsi che i nostri interlocutori siano affidabili, premiare i ben intenzionati e punire gli imbroglioni.