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 2014  maggio 04 Domenica calendario

BRANCIAROLI: IL MIO PRIMO PIRANDELLO»

«Enrico IV è come Am­leto. Dagli americani è considerato il capolavo­ro di Piran­dello. E siccome non ho mai interpre­tato l’autore siciliano in vita mia, ho deciso di iniziare da un testo mitico». Franco Branciaroli non conosce le mezze misure, non fanno proprio par­te del suo temperamento di mattato­re. D’altronde il protagonista di Enri­co IV è un istrione proprio come lui. «È un ruolo che caratterialmente mi è congeniale, dovrebbe venirmi bene» sorride sornione Branciaroli che si è impegnato come regista e attore in u­na grande nuova coproduzione fra il Teatro degli Incamminati e il Teatro Stabile di Brescia di cui è direttore ar­tistico. Il debutto di Enrico IV sarà al Teatro Sociale di Brescia il 7 maggio, poi nella prossima stagione in tournée anche al Piccolo Teatro di Milano.
Branciaroli, lei affronta di petto il Pi­randello maggiore. Nessun timore?
«Enrico IV è una grande opera, più compiuta dei Sei personaggi . Son quei testi che si rivolgevano al pubblico an­ni 30. Un pubblico teatrale colto che non aveva difficoltà a conoscere la sto­ria a scuola. Oggi ho i miei dubbi che il pubblico colga certi riferimenti, ma non è un problema. Resta centrale il tema caro a Pirandello del rapporto sfuggente tra finzione e realtà che og­gi è attualissimo».
Un ruolo storicamente destinato ai grandi mattatori.
«Lo so, è una bella sfida perché oggi tutti grazie alle nuove tecnologie oggi possono fare confronti con le edizio­ni di Valli, Randone, Moissi. Enrico IV entra nella mia galleria degli ’attori’ che in scena fanno gli attori come in Servo di scena di Ronald Harwood, Il teatrante di Thomas Bernhard, Don Chisciotte. Questo per me è l’unico modo per un attore di essere sincero. Il protagonista di Pirandello, infatti, non è pazzo, è un attore che interpre­ta lucidamente il ruolo del re, vittima dell’impossibilità di adeguarsi ad una realtà che non gli confà più. Come ne I giganti della montagna , in quelle vil­lone giganti e isolate avvengono delle recite della vita. E qui la tematica del­la maschera pirandelliana raggiunge la perfezione».
In che cosa sarà diverso il suo spetta­colo?
«Io ho cercato di rendere in proscenio tutti gli altri personaggi, che spesso re­stano scoloriti. In genere ci si concen­tra solo su Enrico IV, quando esce di scena lui subentra la noia. Invece gli al­tri sono personaggi importanti che hanno bellissime battute. Ecco, io ho cercato di rendere Pirandello meno noioso».
Certo che lei osa con una produzio­ne importane, ben 10 attori, in un momento non facile.
«Il panorama teatrale italiano sta di­ventando desolante. Ma proprio in questo momento occorre uno sforzo produttivo. È un calcolo se vogliamo anche cinico: se io entro dentro in questa crisi come una bomba, con u­no spettacolo ben fatto, vero, con bei costumi e bravi attori magari funzio­na. Non ultimo, i teatri chiedono sem­pre i soliti autori che possano attirare le scuole: Goldoni, Pirandello, Shake­speare e Molière. In un colpo solo vor­rei soddisfare le scuole, i teatri, il Bran­ciaroli attore e il Branciaroli direttore artistico».
Branciaroli mattatore in tutti i cam­pi... E, assieme a lei sul palco, nel pros­simo spettacolo dell’estate, altri ’mo­stri sacri’ come Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai e Massimo Popolizio.
«L’ordine della locandina è rigorosa­mente in ordine anagrafico. Tedeschi 94 anni, Pagliai 76, Branciaroli 66 e Po­polizio 53. Dipartita finale è un testo che ho scritto io e che debutterà que­st’estate alla Versiliana e al Franco Pa­renti di Milano, sempre prodotto da Incamminati e Stabile di Brescia. Par­la dell’agonia della nostra società, ma anche del nostro teatro. Dopo i nomi che ho citato sopra, ultimi reduci di un teatro grandissimo, io oggi non ve­do niente. I protagonisti del lavoro sono dei clochard tra il reale e il metafisico che non riesco­no a morire. Un richiamo a Beckett ma, a diffe­renza del suo nichili­smo, qui c’è un rag­gio di speranza».
Qual è il suo ruo­lo?
«Io impersonerò la morte, che in­contra questi barboni. L’am­bientazione è in un futuro in cui l’uomo non muo­re più, realizzando tutto lo sforzo cui tende la scienza di og­gi. Ma siccome la Terra sta per finire, tutti gli abi­tanti si sono trasferiti in un nuovo O­limpo dove possono fare gli dei. Inso­ma, è la scienza, la potenza umana che sostituisce Dio. Tutti, tranne questi tre poveracci che restano lì a domandar­si, anche in modo ironico e diverten­te, il senso della vita».
Lei che senso dà?
«Noi siamo incamminati ad andare ol­tre le leggi della natura, stiamo arri­vando alla sovranatura. La scienza a­desso non limita nessuna azione: non vi è morale né etica perché non c’è più nessun valore assoluto. L’uomo si so­stituisce a Dio, però l’angoscia cresce, la realtà è senza ideale, la natura sen­za luce».
Ma una luce lei dice che c’è.
«Sì, la rappresenta il personaggio di Popolizio, che è immortale ma resta sulla Terra che sta per distruggersi. Dice che migliaia di anni prima c’è stato un uomo inchiodato che aveva detto che alla fine del mondo sareb­be tornato e ci avrebbe dato l’im­mortalità, che ci avrebbe fatto cono­scere il perché delle cose. ’Tra un’im­mortalità che non conosco e che mi riempie di angoscia, e una immorta­lità che mi spiega il perché, scelgo questa’ dice. E aspetta, correndo il rischio che Costui non arrivi».
Lei personalmente aspetta?
«Certo, ne sono convinto. Ma con lu­cidità vedo che la cultura oggi non ammette più l’assoluto, perché il mo­tore della filosofia occidentale è il di­venire, le cose cambiano. E se ci fos­se un assoluto il divenire sarebbe determinato: non ci sono più valori non perché siamo cat­tivi, ma perché i valori in questo contesto sono im­possibili».
C’è chi, come la Chiesa, però, che i valori li di­fende.
«Il compito futuro del­la Chiesa sarà terribile, dovrà conciliare una vi­sione spirituale e una mondana. Un compito che papa Francesco sta affrontando con coraggio e grande capacità. Perché, il mondo, dei valori ha no­stalgia, eccome».