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 2014  maggio 04 Domenica calendario

LE ULTIME LETTERE DI ANDREOTTI

«Ho avuto una vita incredibilmente felice». Così Giulio Andreotti defi­nisce la sua esistenza terrena, in u­na delle sei lettere che scrisse in momenti particolari della sua vita a partire da 1978. Sono lettere in­dirizzate ai familiari che doveva­no essere aperte solo in caso fosse morto improvvisamen­te, per cause naturali o per un attentato. La sua prima let­tera è datata 10 aprile 1978, ventiseiesimo giorno del se­questro di Aldo Moro, un momento drammatico per An­dreotti: «Non avevo mai pensato di scrivere qualcosa per il mio post mortem, ma gli avvenimenti di queste ultime set­timane, dando fragilità alla nostra sicurezza, mi inducono a farlo». Le sei lettere da aprire post mortem, che conten­gono anche alcune disposizioni per il dopo – «Poche, per­ché ho comandato fin troppo da vivo», scrive Andreotti con la sua nota ironia in quella più recente, datata giugno 2005 – sono state ritrovate e aperte dai figli dopo la sua scomparsa, avvenuta il 6 maggio 2013, all’età di 94 anni. Ma, in quel gior­no di lutto i figli non le hanno fatte leggere a nessuno, per non rischiare di alimentare polemiche strumentali: la no­tizia della scomparsa del politico italiano più longevo e fa­moso della storia dell’Italia repubblicana stava facendo il giro del mondo, e, agli attestati di stima e affetto che arri­vavano anche da tanti Paesi stranieri, si accompagnavano giudizi critici e ricostruzioni storiche faziose sugli oltre ses­sant’anni di vita politica dello statista democristiano.

Ora, dopo un anno, in linea con lo stile riservato della fa­miglia Andreotti, è stata inviata copia delle lettere a pochi parenti e amici. La prima lettera, come detto, è del 1978; le altre cinque sono state scritte tra il 1994 e il 2005, nel pe­riodo in cui Andreotti svolge con assiduità il suo lavoro di senatore a vita, affronta i due processi che lo vedono im­putato a Perugia e a Palermo, pubblica libri e dirige il men­sile internazionale “30Giorni”. E proprio ai giornalisti del­la rivista («Con i quali – scrive – ho vissuto anni di esaltan­te collaborazione in uno spirito unitario») è dedicato l’ul­timo dei saluti. È un Andreotti per certi versi sorprendente (anche se solo per chi non lo conosceva bene) quello che ne emerge: solare e lontano mille miglia dallo stereotipo dell’uomo di potere cinico e indecifrabile che gli è stato cu­cito addosso in tanti anni; lontano da quel senso di ango­scia e cupezza che pervade il film Il Divo di Sorrentino. Le lettere sono indirizzate alla moglie Livia, ai figli e ai nipoti, che per Andreotti sono i principali elementi della sua vita «incredibilmente felice», accompagnata da una profonda fe­de cattolica. Afferma, infatti, nella lettera del 24 settembre 1999, scritta mentre attende con fiducia la sentenza di pri­mo grado di Perugia: «Li affido alla Madonna e ai miei tre punti fermi di spiritualità: santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, padre Pio e il beato Escrivà». Anche se in­dirizzate ai familiari le lettere sembrano sempre rivolte a tut­ti, una sorta di testamento spirituale nel quale emerge l’u­manità dello statista, ciò in cui credeva e i suoi riferimenti ideali. Pensieri accompagnati sempre da tanto realismo. Scrive, infatti, nella stessa lettera del 1999: «Nell’azione po­litica qualche sgambetto l’ho fatto e non ho frenato la mia ambizione. Se a qualcuno ho arrecato ingiuste amarezze chiedo indulgenza». E, anni prima, nel­la lettera del 1978, co­sì aveva sintetizzato la sua vita politica: «Ri­conosco innanzi tutto di aver avuto un ruo­lo superiore ai miei mezzi intellettuali, che mi sono sforzato di svolgere nel modo migliore, supplendo con l’impegno alle ca­renze di base. Nella vita politica mi sono sempre ispirato alla difesa dei più deboli, nutrendo una perso­nale allergia per ogni forma demagogica.

Spero di non lasciare dietro di me rancori od equivoci». Tante le persone ricordate con gratitudine nelle lettere, tanti personag­gi famosi, ma anche persone qualunque: «Sono grato a quanti mi hanno aiutato: da De Gasperi a Gonella ai So­maschi di S. Maria in Aquiro e a uno splendido sacerdote segnino, don Giuseppe Del Giudice. Se qualcuno vorrà far qualcosa a mio ricordo aiuti il Parroco di S. Giovanni dei Fio­rentini, don Luigi Veturi, per la costruzione della cappella dell’Amore Misericordioso. Un pensiero devoto a Giovan­ni Paolo II che mi ha voluto bene e mi ha tanto aiutato».

Andreotti ha sempre parlato della sua morte con u­na certa ironia: «Sono in proroga», diceva spesso ne­gli ultimi anni di attività in Senato. Un umorismo po­polano romano d’altri tempi, il suo. Nella lettera del 1999 scrive: «Spero di potere dire, chiusi i processi, il mio “Nunc Dimittis” (ma la Scrittura non narra che il saggio vegliardo che aveva atteso Ge­sù morisse subito dopo il cantico). Debbo comunque dire “Miserere mei Deus secun­dum magnam Misericordiam tuam”». Ma ci sono passaggi nelle lettere nei quali il re­gistro e i toni cambiano decisamente, le fra­si sono profondamente solenni, sembrano scolpite nella pietra. Scrive Andreotti nella lettera del 1978: «Minacciose figure stanno turbando la vita italiana, ma è da gridare al­to che non dobbiamo avere paura di colo­ro che possono solo toglierci la vita terrena. Se a me succedesse qualcosa di grave, i miei non nutrano sentimenti di odio e ancor me­no di vendetta. Così non farebbe piacere al mio spirito». Ancor più significativo (per chi dà il giusto valore a un giuramento solenne fatto davanti a Dio) quello che Andreotti af­ferma nella lettera del 25 settembre 1995, scritta il giorno prima della partenza per Pa­lermo, dove si sarebbe tenuta, nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, la pri­ma udienza che lo vedeva imputato per as­sociazione mafiosa: «Ora che sto per parti­re per Palermo desidero ripetere con la se­rietà di un giuramento dinanzi a Dio, cui nulla può essere nascosto o manipolato, che io nulla ho mai avuto a che fare con la mafia (se non per combatterla con leggi o atti pubblici) o con la morte di Pe­corelli, del gen. Dalla Chiesa e di chiunque altro tra gli as­sassinati. Mi offende particolarmente l’insinuazione che non si sia fatto tutto il possibile per salvare Moro. Sul per­ché sia nata l’infame iniziativa del marzo 1993 non sono ancora in grado di dare una risposta. Il tempo e, spero, i giu­dici lo dovranno acclarare. Se per il lungo decorso delle pro­cedure o per la realizzazione di un attentato che è da tem­po nell’aria io non arrivassi da vivo alla verità spero che si trovi comunque un modo di renderla palese». La lettera fu affidata, non sigillata, alla segretaria Patrizia Chilelli, per­ché la consegnasse ai figli nel caso lui non fosse torna­to dalla trasferta siciliana. Chilelli ci ha raccontato che quel giorno tentò di sdrammatizzare, ma Andreotti le rispose: «Custodiscila perché i tempi si fanno torbidi». Nelle lettere Andreotti trova un senso cri­stiano anche alla bufera giudiziaria che durò dal 1993 al 2004: «Ero abituato a troppi onori e tappeti rossi. Non arrivo a ringraziare chi mi ha teso la trappola, ma non porto rancori» scrive in una del­le due lettere del 1999. Un pensiero che in quegli anni espresse anche in intervi­ste e interventi pubblici.
Ma è ancor più chiaro nella lettera del 1995, nella quale, riprenden­do le parole che gli aveva detto Madre Teresa di Calcutta in un in­contro privato nel suo studio, all’inizio del calvario giudiziario, lascia scritto: «Nella mia vita ho avuto tanto: incarichi, onori, fiducia, riconoscimenti accademici. Che potevo of­frire in cambio alla Provvidenza divina? For­se questi anni di sofferenze e di calunnie servono a bilanciare un corso di vita tutto favorevole. Sa­rebbe ingiusto avere lo stesso premio eterno dei poveri che, senza una casa o un lavoro, affollano le chiese chie­dendo un aiuto che non sempre possiamo dar loro». L’aiu­to ai poveri è una raccomandazione a figli, nipoti e ami­ci sempre presente nelle lettere: «Raccomando di aiutare i poveri di cui mi sono occupato. Ho sempre detto loro che ero uno strumento; e ora la Provvidenza provvederà al­trimenti». E nel 2005, al termine della lettera, aggiunge anche alcuni post scriptum. Nel primo scrive: «Viene al portone spesso un poverino, spesso ricoverato per cure. Con i miei lo chiamiamo: “il vecchietto”. Aiutatelo».