3 maggio 2014
Se Vladimir Putin, dopo la Crimea, decidesse di riprendersi militarmente altre repubbliche ex sovietiche, la Nato sarebbe in grado di fermarlo? Secondo la gran parte degli analisti no
Se Vladimir Putin, dopo la Crimea, decidesse di riprendersi militarmente altre repubbliche ex sovietiche, la Nato sarebbe in grado di fermarlo? Secondo la gran parte degli analisti no. Il Wall Street Journal: «I tagli ai bilanci hanno reso più difficile la possibilità di adempiere ai compiti più importanti della Nato. Oggi abbiamo sul campo forze che non sono pronte, né addestrate, né sufficientemente armate» [1]. La scorsa settimana la Russia ha spostato contingenti eccezionali sul confine orientale ucraino minacciando di superarlo o di entrare nella regione moldoviana della Transnistria. Entrambe le aree sono abitate da ingenti comunità russe, che Putin ha detto vittime di una grande ingiustizia: l’essere rimaste fuori dai confini russi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica [2]. Prima di incontrare il collega americano John Kerry, il ministro degli Esteri russo Lavrov sabato ha assicurato che Mosca «non ha nessuna intenzione di varcare i confini ucraini». Gianni Riotta: «Finite le cerimonie, i picchetti in alta uniforme, i palazzi scintillanti del Vecchio Continente, Obama ha detto in soldoni agli europei: “Fratelli, Putin è alle porte. Se si muoverà, la Nato dovrà esser pronta e noi americani non possiamo pagare da soli”. La Nato, Obama non ne fa mistero quando i reporter queruli si allontanano, non è in forma. Mentre Nixon e i parlamentari del Pci si fronteggiavano a Roma nel 1969, gli americani avevano in Europa 400.000 soldati. Oggi 67.000. Allora erano pronti al decollo 800 aerei militari Usa, adesso ne son rimasti 172. Gli alleati han fatto di peggio, Londra ha sotto le armi 82.000 uomini, meno di quanti ne avesse Lord Wellington ai tempi della battaglia di Waterloo, 1815» [3]. «Siamo materialmente nelle mani di Putin: se decidesse di mangiarsi pezzi dell’ex Unione Sovietica non sapremmo che fare. Tragico sarebbe se movesse contro qualche paese Nato. Allora l’Alleanza atlantica avrebbe il dovere, starei per dire “contrattuale”, di intervenire in difesa della nazione aggredito. Penso alla Polonia, per esempio, che ha il torto di avere un Pil triplo rispetto a quello dell’Ucraina, essendo partita dalle stesse posizioni» (Giorgio Dell’Arti) [4]. Scrive il Washington Post: «Le spese militari in Europa sono crollate con la fine della Guerra Fredda, e poi ricresciute con le guerre in Iraq e Afghanistan. Ma nei cinque anni della crisi finanziaria globale, sono state molto ridotte di nuovo, anche se quelle della Russia sono aumentate di più del 30%. E altri tagli sono in corso, nonostante i leader nazionali diffondono dosi quotidiane di severa retorica contro la Russia» [2]. Nel 2013 gli Stati Uniti hanno pagato il 72% delle spese della Nato. Nello stesso anno gli americani hanno investito per le difese miliari il 4,1% del loro Pil (poco meno di 600 miliardi di dollari), i russi invece il 4,5 [5]. Negli ultimi dieci anni, Vladimir Putin ha aumentato del 79% le spese militari della Russia. Nello stesso periodo i 28 Paesi Nato hanno tagliato di molto i loro bilanci sugli armamenti, incalzati dalla recessione economica. I militari dell’Alleanza, da 1.940.342 che erano nel 2006, sono scesi a 1.453.028 nel 2012. Il Canada ha abbattuto le sue spese militari per una somma pari al 7,6% del Pil, la Spagna per l’11.9%, l’Italia per l’10,3%. E così via [1]. La Spesa militare minima per essere membri a tutti gli effetti della Nato dovrebbe essere pari al 2% del Pil. Quasi nessun Paese la rispetta: la Germania investe l’1,3%, la Francia l’1,9%, l’Italia l’1,2% (poco più di 15 miliardi), la Spagna lo 0,9 ecc. [6]. In realtà la spesa militare a livello mondiale nel 2014 è in crescita dello 0,6%: da 1.538 a 1.547 miliardi di dollari. Solo che ad armarsi di più sono Russia, i Paesi dell’Est (Cina su tutte) e quelli arabi [7]. Questa la classifica delle spese militari relativa al 2013: al primo posto ancora gli Usa con 582 miliardi di dollari davanti a Cina (112), Russia (68), Arabia Saudita seguiti da Regno Unito, Francia (57), Giappone (51), Germania ( 44) e India (36). L’Italia si classifica al 13° posto con 25 miliardi di dollari, cifra che però dovrebbe venire ridimensionata a 19 miliardi sottraendo i fondi per i Carabinieri che risultano nel Bilancio Difesa ma concernono compiti di polizia. Anche dopo aver scontato i fondi dell’Arma l’Italia resta comunque in lieve vantaggio su Israele, a quota 18 miliardi di dollari, a sua volta tallonato dall’Iran, al 15° posto con oltre 17 miliardi e mezzo [7]. «Quando Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia, guidava le tribù beduine della Penisola Arabica contro le truppe turche durante la Prima guerra mondiale mai avrebbe immaginato che un secolo dopo gli eredi di quelle tribù avrebbero superato in termini militari la Gran Bretagna. Forse non in potenza militare ma di certo per quanto concerne le spese militari. Quelle saudite sono aumentate quest’anno dell’8,6 per cento, quelle britanniche sono state invece tagliate più o meno della stessa percentuale. Il think-tank statunitense Iiss ha reso noto nel suo ultimo rapporto Military Balance sulle spese militari mondiali che nel 2013 l’Arabia Saudita è salita al quarto posto nella classifica dei Paesi che investono più risorse nelle forze armate con un bilancio di 60 miliardi di dollari, superiore ai 57 miliardi spesi dai britannici» (Gianandrea Gaiani) [7]. In Medio Oriente, mentre Israele mantiene quasi stabile il suo livello di spesa attorno ai 13 miliardi di dollari, oltre all’Arabia Saudita altri Paesi sono impegnatissimi a fare acquisti. L’Oman ha raddoppiato le spese militari dal 2011, passando da 4,7 a 9,2 miliardi. In grande crescita anche Bahrein, gli Emirati e l’Iraq [8]. È partita la corsa agli armamenti anche in Africa, nella zona sub-sahariana «dove nazioni poverissime sembrano aver deciso che la loro vera priorità sia quella delle armi, soprattutto nuovi aerei. In tutta la regione i quattrini investiti in questo settore sono cresciuti del 18%. L’Angola, da solo, ha aumentato le spese del 39% [8]. Per quanto riguarda la Cina, la crisi delle isole Senkaku (secondo i giapponesi) o Diaoyu (secondo i cinesi) sta facendo miracoli per i mercanti di strumenti bellici. Entro il 2015 la spesa cinese supererà quella di Gran Bretagna, Francia e Germania messe assieme (159,6 miliardi di dollari). Pechino sta modernizzando tutto il suo arsenale e questo, naturalmente, causa apprensione fra i suoi vicini a Est e ad Ovest. [8]. Nella visita tra Obama e Renzi a Roma quello dei tagli al bilancio della Difesa sul tavolo del governo Renzi era e un capitolo molto delicato, vista l’insistenza di Obama sulla «libertà che non è gratis» e sulle asimmetrie delle spese militari tra Stati Uniti ed Europa. Al centro della questione, l’acquisto da parte del governo italiano dei cacciabombardieri F-35, nonostante da Palazzo Chigi abbiano assicurato che il presidente americano non ha fatto alcun riferimento diretto ai velivoli [9]. Il programma di sviluppo e costruzione degli F-35 ha il nome ufficiale di Joint Strike Fighter (Jsf) e ha l’obiettivo di costruire un aereo da combattimento cosiddetto “di quinta generazione”. È svolto dagli Stati Uniti in collaborazione con una decina di altri paesi, tra cui l’Italia e il Regno Unito. Anche se il programma Jsf è dei primi anni Novanta, l’interessamento italiano è iniziato intorno al 1998 – quando il ministro della Difesa dell’allora governo Prodi era Beniamino Andreatta – e i negoziati per l’inserimento dell’Italia sono iniziati nel 2001 e si sono conclusi tra giugno e luglio 2002, durante il governo Berlusconi [10]. Per sostituire progressivamente i velivoli AV-8b Harriere della Marina e i Tornado dell’aeronautica, il governo italiano si è impegnato ad acquistarne 90 (erano 131 fino al 2012) per un costo totale stimato di 14,3 miliardi di dollari nell’arco di quarant’anni (il costo per ogni velivolo è di circa 158 milioni di euro). Finora l’Italia ne ha già presi sei, entro la fine dell’anno ne saranno consegnati altri due [10]. Renzi ha fatto sapere che nel settore della difesa sono possibili risparmi per circa tre miliardi, anche se non è chiaro quanto di questa cifra debba provenire dal programma sugli F-35 e quanto invece da altre iniziative come la vendita di alcune caserme. La decisone non dovrebbe però essere presa prima della fine dell’anno: l’iter stabilito da Renzi e dal Quirinale prevede prima la compilazione di un Libro bianco della difesa per capire cosa serve davvero e cosa invece si può tagliare [11]. L’obiettivo di Renzi appare quello di non scontentare l’alleato americano e allo stesso tempo di evitare spaccature all’interno del Pd, anche in omaggio agli impegni assunti a suo tempo con gli Usa di governi precedenti, a cominciare da quelli di centrosinistra della fine anni Novanta di cui fu esponente Napolitano. Ma riservandosi uno spazio di manovra per operare qualche taglio, se non proprio incisivo almeno di bandiera, di immagine» (Daniele Martini) [12]. Note: [1] Luigi Offeddu, Corriere della Sera 28/3; [2] Griff Witte, Washington Post 27/3; [3] Gianni Riotta, La Stampa 28/3; [4] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 29/3; [5] Il Sole 24 Ore 28/3; [6] Francesco Paternò, Pagina99 28/3; [7] Gianandrea Gaiani, Il Sole 24 Ore 7/2; [8] Fabrizio Dragosei, Corriere della Sera 6/2; [9] Massimo Gaggi, Corriere della Sera 28/3; [10] Il Post 20/3; [11] Il Messaggero 28/3; [12] Daniele Martini, il Fatto Quotidiano 29/3.