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 2014  maggio 03 Sabato calendario

PUTIN SULLE TRACCE DI MILOSEVIC

Una guerra in Europa? Fino a pochi giorni fa si trattava di un’ipotesi assurda, impossibile. Il fatto che oggi essa sia solamente improbabile basta a far sì che l’inquietudine si stia diffondendo anche fra chi riteneva, sulla base di considerazioni del tutto razionali, che la contrapposizione fra Mosca e Kiev avrebbe finito per trovare uno sbocco di tipo politico-diplomatico.
E invece nel Donbass, la regione sud-orientale dell’Ucraina, si spara, e non si tratta più soltanto di scontri a fuoco a posti di blocco, ma – viene segnalato l’abbattimento di due elicotteri ucraini nella zona di Slavyansk – di operazioni di natura militare.
Ci sono voluti pochi giorni per vanificare completamente l’accordo di Ginevra, sulla cui base sia Russia che Ucraina si erano impegnate ad astenersi da qualsiasi atto capace di alimentare l’escalation del conflitto.
Il governo di Kiev sta cercando di ristabilire un minimo di controllo contro una situazione sempre più minacciosamente simile, nella sostanza, a quella che ha portato all’annessione alla Russia della Crimea, mentre quello di Mosca nega, anche se con assai scarsa credibilità, ogni coinvolgimento.
Inoltre dalle due parti si sono messe in moto dinamiche di radicalizzazione violenta che fanno dubitare della possibilità di riprendere in mano la situazione anche qualora si potesse raggiungere un’intesa reale sul piano politico e diplomatico. Le reciproche accuse di russi e ucraini sullo scatenarsi di forze organizzate di tipo estremista risultano entrambe fondate, anche se non vi sono dubbi su chi oggi sia all’attacco. Superior stabat lupus, e il lupo ha gli occhi di ghiaccio di Vladimir Putin.
Andrebbe evitato, se vogliamo essere seri, di scomodare il fantasma di Hitler per descrivere l’offensiva geopolitica del presidente russo, ma vi è un parallelo storico che invece sembra possibile evocare con molto maggiore fondamento: quello con Milosevic. Come Milosevic non si rassegnava al disfacimento della Jugoslavia, Putin non ha mai fatto mistero di ritenere il crollo dell’Urss come un’inaccettabile catastrofe. Di più: così come Milosevic pretendeva di proteggere con la forza i serbi ovunque si trovassero, e rivendicava per la Serbia i territori da loro abitati, Putin afferma di fatto che «là dove ci sono russi c’è Russia». Revanscismo storico e geopolitico perseguito tramite l’irredentismo etnico-linguistico.
Infine, l’ideologia. Pur formati all’interno di regimi comunisti, sia Milosevic che Putin hanno dimostrato di credere che, rispetto alla parabola storicamente discendente dell’ideologia comunista, il nazionalismo fosse capace invece di fornire in modo ben più profondo e sostenibile coesione nazionale e legittimazione politica.
Un’onesta riflessione autocritica dovrebbe portare i Paesi occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, ad interrogarsi sugli errori della politica condotta nei confronti della Russia post-sovietica. Sul New York Times Roger Cohen intitolava ieri un suo commento «La sindrome di Weimar della Russia» citando, senza contestarla, l’analisi di uno dei principali esperti russi di questioni internazionali, Sergei Karaganov, che parla dell’umiliazione e della frustrazione di un Paese che credeva, una volta liberatosi della zavorra di un sistema antagonistico all’Occidente, di venire accolto come partner e non trattato come perenne sconfitto.
Il problema oggi, tuttavia, non è quello di ripercorrere la sequenza di errori che ci ha portato, nel dopo-Guerra Fredda, all’attuale situazione di pericolosa ingovernabilità. Ce ne sarebbe per tutti. Per un’America prima così inebriata dalla fine dello storico nemico sovietico da credere davvero di potere essere onnipotente e in grado di gestire unilateralmente il mondo, ed oggi in difficoltà nel fare i conti con la ben più dura realtà. Per un’Europa sempre più gigante economico e nano politico, incapace di andare oltre un’estenuante mediazione dagli sbocchi inevitabilmente minimalisti, e per di più alle prese con una crisi interna di credibilità e consenso.
Le autocritiche sono necessarie, ma non ci esimono dalla necessità di decidere comunque cosa fare ora per impedire sia il conflitto che il trionfo dell’arbitrio e della prevaricazione.
Nel più classico degli schemi, Putin cerca di spostare sul terreno della mobilitazione nazionalista il discorso che altrimenti cadrebbe sulle carenze economiche e politiche di una Russia che, nonostante il grande potenziale, rimane semi-sviluppata e semi-democratica.
Possiamo sperare che un sistema di sanzioni possa indurlo a una politica meno avventurista? Le sanzioni sono sempre un’arma problematica da gestire e dagli effetti non univoci. Gli americani criticano oggi in modo sempre più esplicito gli europei, in primo luogo la Germania, per quella che considerano una loro eccessiva prudenza. Ma che credibilità possiedono sanzioni che hanno per chi le impone effetti più pesanti che non per chi le subisce? L’America sta rapidamente diventando autosufficiente in materia di energia, l’Europa non può nemmeno sognarlo. E a quanto ammontano le esportazioni degli Stati Uniti verso la Russia raffrontate a quelle Europee?
Ragionare in questi termini non significa essere a libro paga dei russi, come l’ex Cancelliere Schroeder, entusiasta «amico di Vladimir».
Se non si tiene conto di queste asimmetrie risulta poco credibile la caricatura degli americani intransigenti contro gli europei deboli.
Ma non sono solo gli europei a venire bollati con il marchio della presunta debolezza. Anzi, il bersaglio principale di questa polemica si trova negli stessi Stati Uniti, dove Barack Obama è sottoposto ad un serrato bombardamento di critiche dei repubblicani, ma anche di vari esponenti del suo stesso partito. Non è chiaro oggi per la crisi ucraina, così come non lo era rispetto al conflitto siriano, cosa esattamente si vorrebbe dal Presidente americano. Di solito i suoi critici lo esortano a «fare qualcosa», purché però non si tratti di azioni che comportino oneri per il bilancio federale o l’impiego in battaglia di «American boys».
Nei confronti della Russia oggi sembrerebbe in ogni caso da evitare di proclamare ultimatum che non sarebbero credibili, come l’imbarazzante sequenza delle «linee rosse» di Obama nei confronti del regime siriano.
Vi è una sola autentica linea rossa solidamente fondata politicamente e legalmente, anzi obbligata: quella dell’Art. 5 della Nato, con l’impegno di difesa nei confronti di un Paese membro dell’Alleanza che sia oggetto di un attacco. Al di là di questo, vi è la politica. Una politica fatta di negoziati e pressioni, di incentivi e disincentivi, di compromessi e punti fermi, di interessi e valori, e soprattutto di consapevolezza sia della propria forza che dei suoi limiti.
Non basterà di certo una poco credibile «faccia feroce» per indurre Vladimir Putin a recedere dal suo progetto di storica rivincita della Russia.