Giovanni Caprara, Sette 2/5/2014, 2 maggio 2014
VOLARE INTORNO AL MONDO SENZA CARBURANTE
Bertrand Piccard è raggiante davanti al grande aeroplano, pronto per la sua nuova e arditissima avventura. L’avevamo lasciato con gli stessi occhi azzurri, sorridenti, 15 anni fa al ritorno dall’impresa che lo aveva reso famoso: il giro del mondo in pallone in 19 giorni e 21 ore, senza mai fermarsi, con il Breitling Orbiter-3. Ora tenterà di nuovo la circumnavigazione del globo, con un velivolo ricoperto di celle solari per assicurare l’energia necessaria a far funzionare quattro motori. Un’impresa simile non ha precedenti ed è proprio questo il motivo per cui la vuole tentare Bertrand, nato a Losanna (Svizzera) 55 anni fa, e destinato a seguire le imprese pionieristiche che evidentemente appartengono al suo patrimonio genetico: è figlio e nipote di altri due Piccard passati alla storia per straordinarie esplorazioni. Quando atterrò all’aeroporto di Ginevra, nel marzo del 1999, dopo la difficile trasvolata in pallone, salì sulla Rolls Royce appartenuta al nonno, come per rendergli omaggio e dimostrargli che il coraggio di famiglia godeva ancora di ottima salute. E ce ne vuole tanto per essere un Piccard, allora come oggi.
Era il 1932 quando Auguste Piccard, schivo scienziato dell’Università di Zurigo, interessato a studiare l’alta atmosfera, costruì una capsula sferica d’alluminio per salire a osservarla di persona. Appeso a un pallone arrivò a 16.201 metri: un record, una salita celeste ritenuta fino a quel momento impossibile e che sui giornali gli fruttò il titolo di “conquistatore della stratosfera”. Emozionò il mondo con quell’impresa ardimentosa, facendo temere fino all’ultimo che potesse finire male. E poco ci mancò quando toccò terra, perché un forte vento fece rimbalzare più volte la capsula sul Monte della Mesa, vicino al lago di Garda. Auguste, alto e dinoccolato, uscì a fatica dal suo abitacolo, acciaccato ma vivo.
Oltre i limiti. L’avventura nel cielo era stata compiuta, ma era solo l’inizio. L’attrazione dello scienziato per esplorare, studiare e spingersi fin dove non era stato nessun uomo, lo indirizzò poi verso le profondità marine. Per affrontarle costruì il batiscafo Trieste, così battezzato perché realizzato nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico nella città giuliana. Il Trieste era una specie di sottomarino lungo una quindicina di metri, dotato di una zavorra di piastre di ferro e riempito di benzina nello scafo, per aiutare la risalita e contrastare le pressioni. Sotto la chiglia era fissata una sfera metallica realizzata con l’esperienza della capsula stratosferica, nella quale il 30 settembre 1953 Auguste Piccard si rinchiuse per un primo collaudo, scendendo fino a 3.150 metri di profondità, nella fossa del Tirreno, al largo dell’isola di Ponza. Tutto funzionò alla perfezione e naturalmente gli fornì l’entusiasmo per immaginare che fosse possibile spingersi oltre, nell’abisso dell’oceano. Ma l’età ormai avanzata gli suggerì di passare il testimone al figlio Jacques, un ingegnere che, cresciuto a fianco di un simile padre, quando divenne adulto ne raccolse interessi e passioni. Aveva condiviso con Auguste la progettazione del Trieste e ora ne ereditava le possibilità. Nel frattempo la dimostrazione compiuta nel Tirreno aveva attirato l’interesse della Marina militare americana, la US Navy, che decise di acquistare il batiscafo per 250mila dollari. A quel punto si aprirono prospettive di esplorazioni prima impensabili, grazie anche ai vertici militari interessati a raccogliere informazioni sui fondali più profondi, preziose per la navigazione della flotta dei sommergibili. E così, nell’ottobre 1959, il Trieste partì verso l’Isola di Guam per avviare il progetto Nekton, vale a dire una serie di immersioni che sarebbe culminata raggiungendo il fondo della fossa delle Marianne, il luogo più profondo del Pacifico. Accadde il 23 gennaio 1960, a bordo c’erano Jacques e Don Walsh della Us Navy: scesero 11.521 metri sotto la superficie, dato successivamente corretto dai nuovi sistemi di misura in 10.902. Seguirono altre immersioni in Atlantico, e il metallico batiscafo divenne noto con un nome più romantico, “La mongolfiera dei mari”.
Cresciuto in una simile casa, Bertrand non poteva essere da meno del padre e del nonno. Cominciò presto a dimostrare le sue future intenzioni cominciando con le ascensioni in pallone. E proprio con questo conquistò un ambito record: nel 1992 attraversò l’Oceano Atlantico in 122 ore assieme a Wim Verstraeten. «Quando ero ragazzo», ricorda adesso, «volevo diventare astronauta, viaggiare nello spazio. Ma presto mi resi conto che nulla avrebbe potuto pareggiare lo sbarco dell’Apollo-11 sulla Luna. Dopo di allora gli astronauti sarebbero stati degli scienziati, non più dei pionieri. Ai miei occhi, insomma, il volo spaziale aveva raggiunto i suoi confini».
Nel frattempo si laureò in psichiatria, ma questo non lo distolse per nulla dall’attrazione per il cielo. Ottenne il brevetto di pilota, praticò l’acrobazia aerea raggiungendo il titolo di campione d’Europa, volò su ultraleggeri e mongolfiere. E il padre Jacques, guardando il figlio all’aeroporto di Ginevra al rientro dal giro intorno al mondo con il Breitling Orbiter-3 assieme a Brian Jones, dopo due tentativi falliti, commentò: «Quando ci si impegna e si ha costanza si conquistano sempre buoni risultati». Non era stato comunque semplice scivolare tra le correnti, sempre con la paura di qualche imprevisto: per riuscire a riposare Bertrand ricorse anche all’ipnosi.
L’eccellenza di Bollate. Ma quel successo non tolse dalla sua testa l’idea di concepire qualcosa di ancora più ambizioso, sia sotto il profilo tecnologico sia umano: il volo di un aeroplano alimentato solo da energia solare, in grado di compiere il giro del mondo. Nei giorni scorsi, in un hangar dell’aeroporto militare di Payerne (Svizzera), accanto alla sua nuova creatura celeste, il Solar Impulse-2, Bertrand ricordava le difficoltà iniziali di questa nuova avventura: «Quando chiedevo ad alcuni costruttori aeronautici di fabbricare il velivolo come lo volevo, tutti mi rispondevano che non era possibile. E invece l’aereo adesso è qui, pronto al lungo volo, e sarà il primo a realizzare l’impresa senza bruciare una goccia di petrolio».
Bertrand aveva bisogno di una macchina volante leggerissima. Si rivolse a fabbricanti di barche in materiali compositi e poi a grandi società della chimica e dell’elettronica di navigazione. Il primo ad abbracciare il sogno di Piccard fu il gruppo internazionale Solvay. «Abbiamo voluto condividere il progetto», commenta l’amministratore delegato Jean-Pierre Clamadieu, «come partner tecnici perché l’aereo rappresentava per noi una sfida da affrontare con innovazioni nella chimica dei materiali avanzati, e trovando sorgenti di energia più adeguate». Poi si sono uniti Omega per i sistemi di guida, Schindler, Abb e numerose altre società.
Dopo aver realizzato la struttura con una fibra di carbonio tre volte più leggera della carta (l’aereo pesa appena 2.300 chilogrammi), la prima sfida è stata quella di reperire celle solari adatte allo scopo, senza le quali non si poteva affrontare l’impresa. La soluzione venne trovata nel centro di ricerca Solvay di Bollate, alle porte di Milano. «Qui», spiega Vincenzo Arcella, che ne è alla guida, «abbiamo realizzato una nuova generazione di celle solari flessibili e sottilissime per adattarle ai movimenti della lunga ala sulla quale sono state installate. Ora queste celle sono facilmente utilizzabili anche in architettura, nella costruzione degli edifici». E sempre a Bollate, nel più importante centro di ricerca del gruppo belga con 300 ricercatori attivi, sono state trovate le soluzioni per una nuova generazione di batterie al litio più leggere e performanti.
Il primo passo è stata la costruzione del prototipo Solar Impulse-1 che doveva innanzitutto testare le caratteristiche necessarie al lungo volo. Con questo modello fu effettuata prima la traversata del Mediterraneo e poi quella degli Stati Uniti. Quindi via libera al Solar Impulse-2, ben più consistente e adatto alla sfida finale. Nelle prossime settimane inizieranno i primi voli di collaudo e alla fine di marzo del 2015 avrà inizio la grande avventura.
Tecnologia e ambiente. Simile a un gigantesco insetto, con un’ala di 72 metri, più lunga di quella di un Jumbo jet 747, e ricoperta di 17mila celle al silicio che raccolgono l’energia del sole immagazzinandola nelle batterie e consentendo di viaggiare senza interruzione giorno e notte. La trasvolata inizierà nell’area del Golfo, passando sul Mare Arabico, l’India, Burma, Cina, Oceano Pacifico, Stati Uniti, Oceano Atlantico, Sud Europa e Nord Africa. Tutto in circa quattro mesi. Ogni settimana ci sarà il cambio dei piloti e Bertrand si alternerà con André Borschberg. Vivranno in un abitacolo non pressurizzato e non riscaldato delle dimensioni di una cabina telefonica e le loro doti di resistenza saranno messe a dura prova. «Il nostro scopo più importante», afferma Bertrand Piccard, «è dimostrare come la tecnologia possa oggi aiutare con efficacia l’uomo combattendo l’inquinamento. E Solar Impulse-2 ne è la dimostrazione più lampante. La natura si protegge da sola, l’uomo invece deve affidarsi alla tecnologia che oggi rende possibili soluzioni per vivere meglio rispettando l’ambiente».