Antonio D’Orrico, Sette 2/5/2014, 2 maggio 2014
ALL’INIZIO VOLEVO SCRIVERNE UNO SOLO DI GIALLI DI MONTALBANO. L’ERRORE FU IL SECONDO E COSÌ SONO PASSATI VENT’ANNI E QUINDICI MILIONI DI COPIE
[Conversazione con Andrea Camilleri sul compleanno del commissario] –
La notizia è che Salvo Montalbano compie vent’anni.
«Vent’anni. Ero giovane allora, adesso ne ho 90».
Montalbano è di Catania, l’ho scoperto rileggendo la prima avventura, La forma dell’acqua.
«Sì, è di Catania ed è nato nel 1950».
Come mai è di Catania?
«Non lo so. Direi quasi profeticamente perché poi i film tratti dai romanzi li hanno girati nella zona est della Sicilia».
Lei dice pochissimo del commissario la prima volta. Dice che quando voleva capire una cosa, la capiva e che aveva un neo sotto l’occhio sinistro.
«Sopra il labbro, per la precisione».
Salvatore Nigro, un esperto della storia del commissario (ha scritto tutte le quarte di copertina dei romanzi) dice che il personaggio, nella prima avventura, è stenografato.
«Proprio per questo scrissi il secondo romanzo, incautamente. Mi ero accorto che nel primo romanzo Montalbano non era un personaggio compiuto. Allora dissi: “No, scrivo il secondo e me lo levo dalle scatole”. E lì fu l’errore».
Anche in questa versione primitiva Montalbano ha già una sua caratteristica fondamentale: recita, fa teatro.
«Montalbano è un teatrante nato, un tragediatore, come si dice in Sicilia».
Luca Zingaretti, il Montalbano della tv, mi ha detto che quando ha dovuto decidere come interpretare il commissario gli è venuto naturale rifarsi alla gestualità di Arlecchino.
«A me questo non l’ha detto, Zingaretti. È una bella idea. Perché in fondo ora, a guardarlo a distanza di tanto tempo, mi sembra un po’ un teatrino delle maschere dell’arte. Il dottor Pasquano è Balanzone. Pulcinella sarebbe Catarella. È curioso. L’altro giorno proprio su questo riflettevo, è come un teatrino, non dell’Opera dei Pupi ma della commedia dell’arte».
Il commissario Montalbano è calato nella cronaca e nella storia. Ogni suo romanzo è un sismografo dell’attualità.
«Questo è stato uno dei presupposti quando ho deciso di scrivere questo personaggio. Avevo davanti il modello Maigret, attorno al quale succede tutto (la guerra, il governo di Vichy), ma dentro i romanzi tutto ciò non entra. Il personaggio non ne viene nemmeno sfiorato. Simenon non lo permette. Allora ho detto: “No, il mio commissario deve vivere e patire la cronaca. E deve invecchiare nell’arco delle avventure”».
Nel Ladro di merendine Montalbano è al ristorante di Calogero e sta aspettando che gli portino l’antipasto. Nell’attesa legge il giornale: «La manovrina economica che il governo avrebbe varato non sarebbe stata di quindici ma di ventimila miliardi. Sicuramente ci sarebbero stati rincari, tra i quali benzina e sigarette. La disoccupazione nel Sud aveva raggiunto una cifra ch’era meglio non far conoscere. I leghisti del Nord, dopo lo sciopero fiscale, avevano deciso di sfrattare i prefetti, primo passo verso la secessione. Trenta picciotti di un paese vicino a Napoli avevano violentato una picciotta etiope, il paese li difendeva, la negra non era solo negra ma magari buttana…». Sembra un editoriale scritto oggi e, invece, siamo nel 1996. Nei vent’anni di Montalbano ci sono i vent’anni di una Italia che si è ripetuta sempre uguale. Il commissario, cresce, cambia, mentre l’Italia…
«Non è cambiata sostanzialmente per niente. Poi col sopravvenire della crisi, figurati, le cose sono anche peggiorate. Credo che il punto più alto del rapporto tra la realtà quotidiana e il commissario sia nei fatti del G8, cioè in Giro di boa, il romanzo in cui il commissario medita di dimettersi. Sa una cosa? Quel libro provocò una riunione del sindacato di polizia al Piccolo Eliseo e mi invitarono. C’era questo teatro pieno, colmo di poliziotti, alcuni dei quali avevano partecipato ai fatti di Genova. Ed è stata una bellissima discussione. Aperta, serena. Però che il libro diventasse oggetto di una discussione sindacale a me fece un curiosissimo effetto, un effetto positivo».
Le inchieste di Montalbano sono il romanzo civile dell’Italia degli ultimi vent’anni. Non è che l’Italia di romanzi civili ne abbia avuti tanti. Ho notato che nelle prime inchieste si fa spesso riferimento a Mani pulite, ai giudici di Milano.
«Perché quelli erano gli anni, quello il clima, l’atmosfera in cui nacque Montalbano. E ci sono questi riferimenti perché la cronaca di quei giorni riportava queste notizie».
Rileggendo il primo Montalbano a un certo punto mi sono molto preoccupato.
«E perché mai?».
Perché non c’era Mimì Augello, il vice di Montalbano. Poi all’ultimo minuto, a pagina 193 di 224, sbarca all’aeroporto e telefona a Montalbano per avvertirlo del suo rientro.
«Sì, all’inizio Augello praticamente non c’è. Poi sentii la necessità di una sorta di alter ego, ma molto alter, rispetto a Montalbano. Volevo un contrasto. Per esempio, quello dei primi romanzi è il periodo di castità di Montalbano, il periodo di fedeltà a Livia, invece Augello è scatenato, un infedele per natura. Ci tengo, però, a dire una cosa: Augello è uno sbirro bravo quanto Montalbano. I rapporti tra i due sono, agli inizi, tesissimi. C’è anche gelosia professionale, rivalità. Poi con gli anni diventano sempre più buoni fino al punto che Montalbano salverà Mimì da una brutta situazione quando si innamora di un’assassina».
Nel film l’assassina era Belén, ottima scelta di casting. Colgo l’occasione per complimentarmi con il regista Alberto Sironi. Riprendiamo il nostro identikit. Per capire come è fatto Montalbano bisogna considerare il suo rapporto con il cibo. C’è quella volta che Augello mangia la pasta con le vongole mettendoci sopra il formaggio (e non una volta, ma due). Montalbano alla vista di questo obbrobrio sta quasi per uscire di senno e pensa: «Gesù! Persino una jena ch’è una jena e si nutre di carogne avrebbe dato di stomaco all’idea di un piatto di pasta alle vongole col parmigiano sopra!».
«Montalbano non glielo perdonerà mai ad Augello quello sgarro gastronomico. E nemmeno io. È successo anche a me: una volta in una trattoria in Sicilia, uno, che non era siciliano, tengo a sottolinearlo, si fece portare la pasta con le vongole e ci mise il parmigiano sopra, io mi alzai e me ne andai. Sulla porta cercarono di trattenermi, mi dissero di portare pazienza, risposi che non potevo perché uno che fa una cosa così è capace di tutto. Capace che gira con una bomba in tasca».
Tra le sorprese della rilettura una riguarda i personaggi sono poi spariti nelle avventure successive. Il giudice Lo Bianco, per esempio, non c’è più.
«Sì, il giudice Lo Bianco, quello che era fissato con la storia della Sicilia, non c’è più».
Come mai è sparito dal cast?
«Perché col passare del tempo i giudici cambiano, cambiano di ruolo, di posto. Lo ripeto, nei romanzi di Montalbano succedono le cose che succedono nella vita: trasferimenti, ecc. Invece di Lo Bianco ora c’è un giudice che è un po’ maniaco sessuale».
Quello che spera sempre nel delitto, come dire, dal risvolto arrapante. A questo proposito, le prime avventure di Montalbano sono più sboccate, più dirette. C’è quel modo di scherzare tra maschi pieno di battute pesanti come quelle che si scambia con il suo amico d’infanzia Gegè, poi diventato malavitoso. Sono battute brutali e tenere assieme.
«Era quello che volevo rendere. Poi me lo sono un po’ perso per strada questo aspetto. Non so perché. Forse perché crescendo Montalbano è diventato più serio».
Uno dei personaggi che c’è sin dalle prime pagine della prima inchiesta è Fazio mentre non c’è Catarella e quando fa la sua comparsa scopriamo che è un raccomandato.
«Sì, è raccomandato dall’onorevole Cusumano, ed è stupido. Infatti Montalbano sulle prime non lo prende tanto bene. Cambia opinione quando vede che è bravissimo in informatica».
Qui lei ci ha messo un po’ di perfidia facendo del più scemo della questura di Vigàta il più bravo con i computer.
«Esatto! Era l’effetto che volevo ottenere. In quel periodo non riuscivo a imparare a scrivere con il computer. Infatti La forma dell’acqua e Il cane di terracotta, i primi due, li ho scritti con la mia vecchia macchina da scrivere, la Olivetti 22. Dal terzo in poi c’è il passaggio al computer con tutte le mie arrabbiature perché non mi veniva facile. Allora per uno sfogo dell’autore ho promosso il più stupido del commissariato a genio dell’informatica. Una piccola vendetta contro tante frustrazioni. Perché penavo tutto il giorno con il computer poi arrivava mia nipote di quattro anni e mi spiegava come dovevo fare. Mi sentivo grandemente mortificato».
Tra i personaggi spariti c’è l’ispettrice Anna Ferrara che era innamorata di Montalbano e cercava di andarci a letto, ma Montalbano non cede. Che fine ha fatto l’ispettrice Ferrara?
«Mah, sa che non le so dire niente? Credo che si sia sposata e abbia abbandonato il servizio. Non mi è più comparsa nei romanzi. Me lo sono chiesto anche io perché».
Il professor Nigro scrive che c’è un affiatamento, una comunicativa quasi fisiologica tra lei e Montalbano. È così?
«Sì, è come guardarsi allo specchio certe volte, anche se io dico che non ho nulla da condividere con lui. Ma certi pensieri sono condivisi, però. Altrimenti il personaggio non li avrebbe, le assicuro».
Un discorso a parte andrebbe fatto per i personaggi straordinari che Montalbano incontra nelle sue avventure, come il professore che ciuccia, ormai grande e grosso, il biberon.
«Mica me lo sono inventato! È esistito, mi deve credere. Quando io andavo al liceo i giovani professori erano tutti alle armi. Così arrivò il nuovo professore di greco, un prete magrissimo (come descrivo il personaggio del romanzo), il quale aveva una borsa consunta e a un certo punto disse con un filo di voce: “Scusate, e si nascose dietro la porta”. Potevamo noi ragazzi non andare a vedere che stava facendo? Un compagno spiò e disse sbalordito: “Sta ciucciando un biberon”. Lo adottammo: “Professò, lo faccia pure dalla cattedra”. Era bravissimo quel professore, solo che non si sentiva, aveva la voce di un ragno, di un tarlo».
Rileggendo i primi Montalbano, mi sono ricordato che “tambasiare” è una delle più belle attività del mondo.
«Condivido pienamente. Perché “tambasiare” è quando ti sei appena alzato dal letto e giri per casa…».
…in una specie di dormiveglia della vita.
«Esattamente, e il massimo di impegno che puoi chiedere a te stesso è quello di raddrizzare un quadro che è un po’ storto. Quello è il massimo dell’attività fisica e mentale che ti puoi permettere in quel momento».
Nell’intervista a Nigro lei parla dell’autonomia di Montalbano e ci tiene a sottolineare che è vera, non è una suggestione letteraria: Montalbano tende ad andarsene per conto suo.
«Proprio così, mentre sto scrivendo un episodio è come se la scrittura stessa mi portasse in un’altra direzione e devo frenarmi, devo controllare molto. Si scatena un gioco di assonanze, di concordanze che sono rischiosissime».
E dove andrebbe Montalbano se lasciato solo?
«Lo ignoro, vai a sapere, so solo che mi costringerebbe a riscrivere pagine su pagine. I surrealisti facevano la scrittura automatica, così un giorno forse, per divertimento, ci proverò a scrivere un Montalbano automatico».
Nigro scrive che lei si muove con una coscienza metaletteraria che ricorda Cervantes. Cita quel momento in cui Montalbano sta leggendo il romanzo del suo omonimo, Montalbán, e quindi c’è questo gioco…
«Ma dove le scrive tutte queste cose Nigro?».
Nell’intervista che appare nella nuova edizione della Forma dell’acqua.
«Ah, non l’ho ancora letta. Ora ho capito».
Nigro dice, tra l’altro, che si dovrebbe fare un archivio dei sogni di Montalbano.
«C’è quello quando si sogna morto e Livia non va al suo funerale e lo fa arrabbiare di brutto».
E poi c’è quello terribile di Totò Riina capo del governo. Viene da chiedersi se era solo un sogno. Torniamo a noi. Lei scrive il primo romanzo ma non è soddisfattissimo e scrive il secondo in cui Montalbano diventa davvero Montalbano. A quel punto considera il suo lavoro finito.
«Chiuso».
E, invece, arriva Elvira Sellerio, l’editrice…
«E mi dice: “Quando mi dai il terzo Montalbano?”. Io dico: “Perché?”. E lei: “Poi te lo faccio sapere perché”. E, infatti, quando arrivarono i rendiconti vendita la cosa era sbalorditiva. Fui quasi costretto a scrivere il terzo. Non credevo di avere una fantasia tale per reggere per ventuno inchieste. Mi viene da impazzire se penso che Simenon ne ha scritti 72. E, invece, ho retto e sono passati vent’anni».
C’è una bella descrizione che fa di lei Nigro.
«Ancora! Ma quanto ha scritto?».
Dice: «Camilleri mi accoglie nel suo studio a Roma. È amabile. Parla come scrive. Ha un orecchio infallibile per i tempi delle pause. Struttura e mette in movimento parole che levitano come mongolfiere. Le ammaina al momento giusto. Le spegne. Le fa ripartire». È bellissima ed è molto vera, è la sensazione che si ha quando si viene a trovarla e ad ascoltarla in questo studio.
«Sì è molto bella e mi emoziona».