Giulia Calligaro, Io Donna 26/4/2014, 26 aprile 2014
CIAD, L’INFERNO DELLE SPOSE BAMBINE
La scena si svolge intorno a Goz Beida, uno degli ultimi sultanati all’estremo Est del Ciad, dove una lunga carovaniera nel deserto si muta in roccaforti di fango e orizzonti senza tempo. Una luce rosata e rovente rapprende la vita in fotogrammi da Mille e una notte: sono le dieci e si prova a parlare d’amore e di felicità. Davanti a noi siedono uomini con turbanti bianchi e lunghe tuniche, si presentano come "i mariti", ma sul tema capiamo che hanno poco da dire, e uno alla volta scompaiono con il loro silenzio nel vento. A terra, adagiate su grandi stuoie, le mogli bisbigliano e sorridono tra le onde dei veli color gemme preziose.
Dal villaggio di capanne sparse di Louboutigué portano qui i loro ventri perennemente gravidi e nugoli di pargoli per usufruire del Centro di salute per la maternità e la Cura infantile, uno dei 14 nella regione del Sila gestiti dal 2004 dalla ong italiana Coopi e finanziati dall’Unione europea, che ha reso meno rischioso il loro corso di madri. Senza gli uomini (davanti a loro è proibito parlare), finalmente i risolini imbarazzati diventano racconti: "Mio padre mi ha dato in sposa a 11 anni, a 13 ho avuto il primo figlio", spiega una rimboccando i veli dal volto.
"Io ho avuto dieci gravidanze" aggiunge allora un’altra sgranando occhi a mandorla dentro l’ombra smeraldo. "Quando partorivo in casa, ho perso un figlio e due volte ho rischiato io stessa di morire" diventa audace un’altra ancora. "Io sono stata data in sposa come terza moglie a un cugino, per fargli avere figli maschi" piega lo sguardo dentro la stoffa rubino una bambina. E poi buttiamo di nuovo nella mischia parole come “amore” e “felicità”, che qui paiono essere incomprensibili come in una terra completamente straniera, dove la legge, tenuta in pugno dal governo militare di Idriss Débi Itno, fa lenti passi di progresso in difesa delle donne, ma in cui una lunga tradizione epica di poligamia e maschilismo islamico è dura a scomparire.
"Le donne vengono date precocemente in spose perché difficilmente superano la pubertà senza essere violentate, e una donna non vergine vale meno dote da parte del marito, quando non il ripudio". Ci racconta Caroline Chelsoube, psicologa per Coopi, impegnata proprio per lo sviluppo di una nuova consapevolezza femminile. "Anche le mutilazioni genitali, per lo più di tradizione animista, sarebbero da un anno proibite dalla legge, ma la multa di 6 mila franchi ciadiani (circa 9 euro) vale meno della dote e perciò molti mariti continuano a pretenderla e molti genitori a farla praticare da guaritori e “mammane”. Il che peraltro comporta poi rischi e terribili dolori a ogni parto". Ma dietro un paravento, dove Caroline ascolta e consiglia con altre infermiere dello staff, abbiamo incontrato donne che con personali scatti di coraggio stanno soffiando la polvere sulle pagine di una storia ferma che le condanna da secoli.
Sono donne bambine come Hadje Brahim, che, appena quindicenne, porta nel pancione di 8 mesi la sua ribellione: "Mio padre mi voleva far sposare a un vecchio" inizia, cercando con le parole un volto in cui riposare. "Lui mi aveva comprata con 250 mila franchi (circa 380 euro) e dei sacchi di zucchero. Io sono scappata con un ragazzo che amo e mi sono fatta mettere incinta così ora l’altro non mi vuole più". "Anche io sono stata sposata per forza, al primo rapporto sono stata legata: non voglio che mia figlia riviva questa storia", la appoggia la madre, che oggi condivide con la giovane il ripudio del padre-padrone.
"Io ho 30 anni e 6 figli" inizia poi piano Adeje, avvolta in teli ambrati sul ventre tondo. "E un altro è in arrivo: questo è di un uomo che ho scelto io, andandomene da mio marito che mi picchiava. Il mio amato, però, ha altre mogli e numerosi figli, e non se la sente di prendere anche me e tutta la prole: ce la farò da sola. Lavorerò nei campi per mantenermi, non importa quel che diranno al villaggio". E poi Fatime, 26 anni, infermiera del centro, anche lei racconta che vuole essere l’ultimo anello di una catena da spezzare: "Mai e poi mai farò mutilare mia figlia, io ho avuto squarci quasi mortali al parto". scena uguale e simmetrica nel villaggio di Kerfi, accanto a un altro centro di salute di Coopi, dove le donne vengono a partorire in sicurezza e possono curare i loro bambini.
"Non sono felice con l’uomo che mi hanno dato i miei genitori: ho trovato il coraggio di parlare con loro e abbiamo deciso di ripagargli la dote per liberarmi dal vincolo. Io per ora vorrei solo andare a scuola" esordisce Gouglja, 16 anni, sposa a 13, analfabeta nonostante l’obbligo scolastico: "Una donna che studia è considerata una prostituta", sbuffa. "Io invece non voglio il marito che mi hanno dato ma non so con chi parlarne, sto pensando di avvelenarmi per farla finita" piange Younnous, 15 anni, moglie di un cugino da quando ne aveva 12.
In questi casi intervengono i Comitati di donne, sempre nati in seno ai progetti di Coopi, che sensibilizzano le famiglie a trovare una soluzione. "Ne abbiamo viste di tragedie, di sangue e di lacrime" tira le fila la più anziana del gruppo. "Questo Paese è fatto così. Ma anche il vento che soffia sempre nello stesso verso a un tratto può mutare: tutte insieme, ognuna con la propria forza, possiamo cercare di aiutarci e di cambiare la situazione". E per un istante lascia volare il suo velo nell’aria, mentre si allontana.