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 2014  aprile 26 Sabato calendario

LUIGI LO CASCIO


All’anteprima uffciale c’era anche il principe Lorenzo del Belgio, fratello di re Filippo, con la moglie Claire. «Mai vista una proiezione così» racconta Luigi Lo Cascio. «Dieci sale in contemporanea in un multiplex per 4000 mila persone». Un inizio promettente e un percorso ancora meglio: Marina di Stijn Coninx, co-produzione italobelga in sala dall’8 maggio, in Belgio (dove è uscito a novembre) è stato il caso cinematografco dell’anno. Perché la storia di un immigrato calabrese figlio di minatori che nel 1959 diventa ricco e famoso grazie a una canzone si trasforma nel film più visto della stagione?
D’accordo, la canzone è Marina, una delle hit italiane più note con 500 versioni all’attivo, da Dean Martin ai Gipsy Kings; e il suo autore Rocco Granata, da noi “Rocco chi?”, nella patria adottiva è una star da mezzo secolo. Ma secondo Lo Cascio, nel film il padre del giovane Rocco che emigra dalla Calabria in cerca di fortuna con moglie (Donatella Finocchiaro) e figli, c’è dell’altro. «Oggi gli italiani in Belgio sono ben integrati: il padre di Matteo Simoni per esempio, il ragazzo che interpreta Rocco, è un architetto e in famiglia parlano fiammingo. Ma suo nonno lavorava nelle miniere di carbone: appena un paio di generazioni fa gli italiani vivevano in baracche ai limiti della decenza, in un luogo ostile e ingiusto. Per i belgi e stato come specchiarsi in un passato vicinissimo. E un’occasione per riflettere sui passi fatti verso una società più civile. È un pezzo di storia che noi italiani dimentichiamo spesso. Quindi ha apprezzato soprattutto l’aspetto sociale di Marina?
Non solo. Le vicende di un giovane che realizza il suo sogno sono sempre entusiasmanti, ma mi è piaciuta soprattutto la relazione tra un padre e un figlio dove il “no” del genitore non è legato a una violenza insensata, ma frutto di un grande amore. Il mio personaggio non vuole che Rocco suoni perché desidera per lui il miglior futuro possibile e nella musica, pensa, questo futuro non c’è.
Lasciò Medicina per diventare attore: ricorda qualche “no” dei suoi genitori? Ricordo più i loro sacrifci per mantenermi a Roma, eravamo cinque tra fratelli e sorelle. All’inizio erano un po’ dispiaciuti: mia madre veniva da una famiglia di medici, io ero piuttosto bravo. Ma forse proprio per questo hanno capito che, se lasciavo la facoltà, era per una passione ancora più forte. E, anche se non me rendevo conto, la loro fiducia in me è stata molto importante.
Si considera un uomo che ha realizzato il suo sogno? Potermi mantenere da solo lavorando a teatro, cioè facendo quello che mi piaceva, era già il sogno realizzato. Poi sono arrivati I cento passi.
Comunque ho cominciato con il cabaret e sono stato ammesso all’Accademia di arte drammatica grazie a un saggio sul comico.
Da due anni è padre anche nella vita. La realtà corrisponde all’idea che aveva della paternità? Non ce l’avevo, un’idea di paternità. Non mi piace ragionare per categorie. Quando sento parlare di crisi dei padri, per esempio... mah, vedo tutti questi papà all’asilo affettuosi con i loro bambini e se penso a come trent’anni fa per un uomo abbracciare il figlio fosse un problema... Riguardo a me, al di là del senso di responsabilità che è abbastanza automatico, sono sorpreso di quanto io sia tornato bambino: giocare è bellissimo. Per il momento la situazione è idilliaca.
E per lei, da bambino?
Non ricordo particolari confitti con mio padre. Anche perché noi fratelli, insieme, eravamo abbastanza invincibili.
Oltre che di crisi della paternità si parla molto di crisi dei sogni, oggi. Il senso di desolazione che c’è in giro spinge a pensare che non ne valga la pena. Capisco lo scoraggiamento. Non mi dirà che erano meglio i tempi della miniera...
La miniera era terribile, ma era un la- voro e avevi la quasi-certezza che impegnandoti duramente la tua situa- zione sarebbe migliorata. Decidere di fare il cantante era un salto verso l’ignoto come lo era dire: “Faccio l’attore” ancora nel 1989. Adesso invece tutto si equivale, l’incertezza è ovunque. Ma appunto per questo un vantaggio c’è: possiamo seguire le nostre passioni senza scrupoli né rimpianti.