Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 1/5/2014, 1 maggio 2014
MEGLIO AFFIDARSI ALLO PSICHIATRA
Lui è quello che fece a pezzi il «Chiampa». Lui è Alessandro Meluzzi, classe 1955, napoletano trapiantato a Torino, psichiatra. Esattamente venti anni orsono, alle elezioni politiche, nel collegio operaissimo di Mirafiori, dalle urne del maggioritario uscì il suo nome e l’allora segretario del Pds, Sergio Chiamparino, futuro sindaco della città, oggi candidato Pd per il Piemonte, ne risultò ignominiosamente sconfitto. «Ero radicato nel territorio», spiega oggi Meluzzi, lavoravo nella psichiatria, inseguivo i matti in via Negarville o in via Mille lire, che erano i giovani figli degli immigrati del Sud abitanti intorno alla grande fabbrica. Mi votarono». Non era però digiuno di politica: nel 1975, era nel comitato centrale della Federazione giovanile comunista italiana, la Fgci di Massimo D’Alema, poi con Saverio Vertone aveva lavorato al giornale Nuova società, di un migliorismo quasi socialista. «Tanto che il Pci lo chiuse proprio con Piero Fassino», ci ride sopra oggi. Cosa che spinse Meluzzi verso i socialisti e nel ’94, verso Silvio Berlusconi. «Mi pareva una linea di resistenza alle procure la sua, in un’Italia in cui i giudici decidevano di far fuori un partito, persino una corrente, e risparmiare un’altra: Psi e non Pci, destra Dc e non la sinistra, il Pli e non il Pri».
Meluzzi, lei è stato in politica a lungo e non ha mai smesso di fare lo psichiatra. Si potrebbe dare una lettura psicanalitica della quadro politico italiano?
«Certo, del resto “Psicopolitica” era il titolo di una storica rubrica di Gigi De Marchi su Radio Radicale, ricorda?».
Come no, lo psicologo anticlericale, dalla voce flautata. Ma veniamo all’oggi, cominciando da Berlusconi, che lei ha conosciuto bene...
«Da quando lo conobbi, nell’autunno del ’93, quando si formava Forza Italia, mi porto dietro la domanda se ci sia o ci faccia».
Addirittura...
«Non mi fraintenda, intendo l’interrogativo su dove finisca l’immagine di sé e le inizino motivazioni profonde e vere. Tuttora lo considero un monstrum, nel senso dei Latini, della genialità profonda. Quando ruppi, per seguire Francesco Cossiga nell’Udr, quello che considero l’unico vero mio maestro, gli rimproverai proprio questa dicotomia, dicendogli che doveva decidere se essere Napoleone o Papà Goriot (personaggio balzacchiano che si consuma in favore dei figli, ndr). La politica, cioè, gli chiedeva la vita. L’impresa, viceversa, esigeva il patrimonio».
E lui?
«Mi rispose che, per lui, le due cose coincidevano, e che il mio era un atteggiamento illusorio, velleitario e romantico. E aveva ragione. Tant’è vero che il prossimo leader azzurro sarà scelto per via dinastica».
Qualcuno scommetteva che la batosta giudiziaria l’avrebbe annichilito, che non ce l’avrebbe fatta a far campagna elettorale come sta facendo in questi giorni...
«Su Berlusconi, aveva ragione Cossiga, quando disse che sarebbe uscito dalla politica solo per morte. All’opposto di quello che affermava Cesare Romiti nel 1994 e cioè che non sarebbero durato, perché non era adatto. Anche io l’ho sempre pensata come l’ex-presidente della repubblica, perché B. è dotato di una proprietà tipica dei metalli, la resilienza, cioè la capacità di piegarsi sotto uno stress e poi recuperare la posizione precedente. È anche una categoria psichiatrica e il Cavaliere è così. È l’unico naufrago che si salva dall’affondamento o passeggero che sopravvive al crash. E poi è unicum psicologiciamente».
In che senso?
«Fra le migliaia di persone che ho seguito in vita mia, è una delle poche che hanno questa caratteristica psichica: contemperano l’elemento euforico e quello ossessivo».
Vale a dire?
«Il primo produce senso di invincibilità, superiorità, il secondo narcisismo e magalomania. Dove si manifestano questi ultimi? Nei dattagli, a sfuggire è la realtà della realtà. B. è capace di inchiodare i collaboratori in una riunione fino alle quattro del mattino per decidere il colore di un manifesto. Questa combinazione di caratteri lo rende tatticamente irresistibile».
Senta, ma sull’agone politico, con B., o forse ormai oltre B. ci sono due altri protagonisti: Matteo Renzi e Beppe Grillo...
«Beppe Grillo e Matteo Renzi sono facce della stessa medaglia. Rappresentano la totale archiviazione delle categorie di destra e sinistra che hanno segnato il secondo dopoguerra, senza che, d’altra parte, siano venute meno le ragioni che stavano alla base di quella contrapposizione. Oggi la dicotomia, nel loro caso, non è fra giustizia e libertà, stato e individuo, ma fra vecchio e nuovo. Dove il nuovo, cioè la cosa buona, sono loro. Solo che...»
Solo che?
«Nel caso di Renzi, c’è l’anagrafe seppure assieme con la zavorra della storia, perché il premier sulla sua nave ha dovuto tirare il vecchio del vecchio. Nel caso di Grillo non c’è neppure la giovinezza: ha quasi 65 anni. È un vecchio arnese degli anni ’80 che, essendo attore, usa l’unica forma di comunicazione possibile cioè l’iperbole. Usando le categorie del primo Umberto Eco, quella degli apocalittici e degli integrati, Grillo fa parte dei primi, Renzi dei secondi».
Senta ma guardando l’Europa, di nevrosi se ne vedono un bel po’: siamo tutti un po’ impauriti. Del futuro, dell’euro, di quello che verrà...
«Diciamo la verità questa è un’Europa costruita a misura della Germania, con le categoria della testa dei tedeschi. E non è detto che siano quelle peggiori: c’è questo capitalismo renano, abbastanza temperato, ci sono queste casette coi soffitti alti due metri e venti, ci sono le donne che fanno ancora i biscotti in casa e accendono le candele. Ma è tutto abissalmente diverso dalla nostra realtà».
Per questo, secondo alcuni, ci maltrattano?
«Precisamente. La loro incazzatura nasce dalla constatazione che aveva fatto, anni fa, Rino Formica, grande pensatore socialista».
Cosa sosteneva Formica, che non lo ricordo più?
«Parlando dell’Italia diceva che il convento è povero ma i frati sono ricchi. Infatti, non si è pagata mai l’università, la sanità, i trasporti, le scuole, poco per le pensioni, abbiamo tutti, chi più o chi meno, il nostro gruzzoletto. E loro, i tedeschi, vogliono che cacciamo fuori tutto, fino all’ultimo centesimo risparmiato».