Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 01 Giovedì calendario

TRA FANNULLONI, BUROCRAZIA E PICCOLI EROI

QUEI TRAVET COSTRETTI A SCOPRIRE L’EFFICIENZA –
Sopruso e frustrazione. Due facce della stessa medaglia. E nel futuro: un nuovo protagonista, il civil servant, non più il “fannullone” e il perenne “fuori stanza”, ma il servitore dello Stato e del cittadino. Nella letteratura, nel cinema, perfino nella pittura domina l’immagine di uomini tutti uguali in bombetta di Magritte, il conformismo e il sopito livore del funzionario che aspira alla promozione, dirigente che una volta promosso non rinuncia a esercitare sui subordinati (e sugli utenti) il gusto della vessazione. Senza contare gli aggettivi che la letteratura ha coniato per inquadrare l’assurda burocrazia: una situazione kafkiana (che Kafka ben conosceva, diligente dipendente delle assicurazioni). I due estremi fanno tilt nel romanzo del ministro-romanziere Dario Franceschini, che anticipa forse la metamorfosi obbligata col nuovo corso del renzismo nella stanza dei bottoni, ne “La follia improvvisa di Ignazio Rando”, il dipendente che dopo 37 anni, 5 mesi e 4 giorni di vita da impiegato modello, “sale in piedi sul bancone e calpestando senza cattiveria carta bollate, ipoteche, pignoramenti, rogiti, si allontana, salutando con un sorriso di scusa l’esterrefatto pubblico che affolla l’ufficio”.
FUORI DAL MONDO

È il professore a Bologna di diritto amministrativo nonché uno dei 35 saggi di Napolitano, Luciano Vandelli, a ricordare l’impazzimento di Rando in “Tra carte e scartoffie” (Il Mulino, 2013) sul tema impiegati e letteratura. La morale della favola? «È finita – ci spiega - l’immagine del funzionario tradizionale un po’ fuori dal mondo e dalla società, come rallentato. Ora occorre una diversa legittimazione. Non più quella che deriva dalla categoria del paludato, dal conoscere le leggi, dalla conoscenza vecchio stile del diritto formale e di maniera», né da quell’altra idea «di trapiantare la cultura aziendalistica nell’amministrazione». No, la figura nuova è quella di Raburdin ne “Gli impiegati” di Balzac, «estremo innovatore, conoscitore delle leggi, dinamico, attento alla sostanza, fautore degli accorpamenti e della riforma del prelievo fiscale». I due poli sono “Le miserie di Monsù Travet” di Bersezio (1863) che insegue e persegue il miraggio del «posto sicuro» e alla fine si emancipa dalle angherie del capo-sezione (da cui il film di Mario Soldati) e invece “il funzionario altolocato, inaccessibile, onnipotente”.
Vi ricordano qualcosa queste parole di Balzac? «Contenti di vedere i ministri in continua lotta con quattrocento mediocrità, con dieci o dodici teste ambiziose e in malafede, gli uffici si affrettarono a rendersi indispensabili, sostituendo l’azione reale con quella scritta». Chi decide è il politico, mai più ostaggio dei tecnici. All’inizio c’è la firma di Napoleone sull’istituzione delle prefetture nel 1800. Ma è la mediocrità a radicarsi nell’amministrazione. Balzac: «La Burocrazia ostacolava la prosperità del Paese». La burocrazia? «Una nuova, inedita e colossale scenografia». La burocrazia domina a San Pietroburgo e Mosca dalla «tabella dei ranghi» di Pietro il Grande (1772) nelle opere di Gogol (“Il cappotto”) e Dostoevskij (“Il sosia”), Cechov e Bulgakov, fino alla parodia dei mandarini sovietici e alla fanta-politica dei Grandi Fratelli.
In Kafka la burocrazia diventa labirinto e colpa. Indecifrabile. Da un lato il «regolare meccanismo» perseguita le sue vittime nel “Processo”, dall’altro le tiene lontane ne “Il Castello”. Nel mondo anglosassone, che detesta la burocrazia ma le si affida, trionfa la striscia “Bristow” del cartonista Frank Dickens, impiegato di multinazionale, non di ministero, che s’imbambola contemplando il piccione sul davanzale dell’ufficio. Stesso humour nelle lettere degli staff politici nei racconti dall’americano Mark Twain.
MASCHERE INDIMENTICABILI

In Italia è tutto un fiorire di maschere indimenticabili. Il Renato Rascel di “Policarpo, ufficiale di scrittura”, il De’ Tappetti ministeriale della Roma umbertina. O il Totò di “Totò e i re di Roma”, alias Ercole Pappalardo archivista capo al Ministero, i cui guai cominciano il giorno che a teatro starnutisce sul ministro e a denunciarlo è l’odiato Palocco alias Alberto Sordi. Ecco i ministeriali romani di Pirandello come Pompeo Lagùmina aspirante consigliere di Stato. E il Giovanni Vivaldi di Vincenzo Cerami nel “Borghese piccolo piccolo”, diventato «da contadino morto di fame, burocrate del Ministero». Celebri “I misteri dei Ministeri” del ’52, metà romanzo metà saggio, basato sul manoscritto del funzionario D.K. 55 di Augusto Frassineti che individua la soluzione di tutti i mali nel trasferire l’amministrazione all’aria aperta. E i prefetti e poliziotti di Camilleri, e a ritroso il segretario comunale di Carlo Levi, e l’Italo Svevo di “Una vita”... Al cinema la commedia de “L’impiegato” di Puccini. Emblematico il film del funzionario che dirige se stesso in un ufficio dimenticato dal mondo, che disprezzato e esonerato svolge però un servizio vero, traduci umano. Invitato a pensionarsi, decide di smaltire le ultime pratiche. È il John May di “Still life” (2013) che assicura ai suoi clienti-utenti, morti di cui nessuno vuol più sapere, il conforto di funerali affollati da parenti e amici perduti. Conclusione poetico-patetica di un “iter” all’insegna dell’inutilità utile del travet affezionato alla scrivania. E domani? Dall’eroismo alla normalità del servizio «civile».