Stephen S. Roach, Il Sole 24 Ore 1/5/2014, 1 maggio 2014
LA DISFIDA DELLE MONETE
Lo yuan, la moneta cinese, negli ultimi mesi si è indebolito riportando in auge le accuse contro la Cina di manipolazione della moneta e svalutazione competitiva ai danni degli altri Paesi. A metà aprile, il Tesoro Usa ha espresso «timori particolarmente seri», sottolineando che la questione rappresenta da tempo uno dei problemi di politica economica più spinosi nei rapporti tra Usa e Cina.
È un dibattito ispirato da ragioni politiche e basato su tesi sbagliate. Se portate all’estremo, le accuse americane rischiano di far scivolare le due maggiori economie mondiali lungo una china pericolosa di attriti commerciali, protezionismo o peggio.
Dopo aver toccato il massimo il 14 gennaio 2014, lo yuan ha perso, alla data del 25 aprile, il 3,4% del suo valore rispetto al dollaro. Questa svalutazione fa seguito a una rivalutazione del 37% cominciata il 21 luglio 2005, quando la Cina smise di mantenere la valuta ancorata al dollaro. Rispetto a quasi nove anni fa, lo yuan è ancora su del 32,5 per cento.
Nello stesso periodo, la bilancia dei pagamenti internazionali della Cina ha subito un aggiustamento marcato. Il surplus delle partite correnti è sceso dal livello record del 10,1% del Pil nel 2007 ad appena il 2,1% nel 2013. Le ultime previsioni del Fmi indicano che il surplus nel 2014 dovrebbe rimanere intorno al 2% del Pil. Guardandoli in questo contesto, i timori delle autorità americane per la recente, modesta inversione di tendenza del tasso di cambio dello yuan appaiono incomprensibili. Con una Cina molto più vicina al pareggio nel saldo con l’estero, ci sono buone ragioni per affermare che lo yuan, essendosi rivalutato di quasi un terzo da metà del 2005, ormai è ragionevolmente vicino al suo "valore equo". L’Fmi lo ha riconosciuto nella sua ultima e approfondita analisi dell’economia cinese, che definisce lo yuan «moderatamente sottovalutato», nell’ordine del 5-10 per cento.
L’ossessione americana per il tasso di cambio con la Cina è un classico caso di negazione politica. I lavoratori americani rimangono sotto pressione, sia dal punto di vista dei salari reali che dal punto di vista del rischio disoccupazione, e i politici di conseguenza si trovano costretti a dare una risposta e lo fanno prendendo di mira la componente cinese di un disavanzo commerciale che è in crescita da tempo, e sostenendo che la colpa dei mali ormai incancreniti della classe media americana è la manipolazione del tasso di cambio da parte di Pechino. Il disavanzo commerciale degli Usa è uno squilibrio multilaterale con un gran numero di Paesi - 102 in totale - non un problema bilaterale con la Cina. E non nasce dalla manipolazione dello yuan, ma dal fatto che gli Usa non risparmiano abbastanza.
Non avendo abbastanza risparmi in patria e volendo crescere, gli Usa devono importare le eccedenze di risparmio dall’estero e tenere in piedi un imponente disavanzo nelle partite correnti per attirare i capitali esteri. E questo ci porta allo squilibrio commerciale multilaterale dell’America: sì, gli scambi con la Cina sono la componente più grossa di questo squilibrio, ma è un riflesso della complessità delle catene logistiche multinazionali e dei benefici di soluzioni di efficienza offshore. Tutto ciò ci porta alla scomoda verità riguardo alle invettive anticinesi ispirate da ragioni politiche: sono destinate a ritorcersi contro gli Usa. Se l’America non riuscirà a risolvere il suo problema di carenza di risparmi, è ragionevole aspettarsi, alla luce dello stallo politico sul bilancio e del persistere di un basso tasso di risparmio fra la cittadinanza, che il disavanzo delle partite correnti permarrà. Questo significa che qualsiasi riduzione della quota di squilibrio degli Usa con la Cina finirebbe per tradursi in un aumento della quota di squilibrio nei confronti di altri produttori esterni. Ed è il caso di sottolineare che i prodotti di questi altri Paesi comporterebbero con ogni probabilità costi maggiori rispetto a quelli cinesi, gravando quindi una classe media americana già alle strette dell’equivalente di un incremento delle tasse.
Ora che la Cina si sta spostando verso un modello maggiormente incentrato sulla domanda interna, Washington farebbe bene a smetterla di sproloquiare contro lo yuan e cominciare a concentrarsi sulle opportunità che potrebbe offrire questa miniera d’oro, dedicando attenzione prioritaria a garantire l’accesso delle aziende Usa ai mercati cinesi.
Ci sono due visioni sul futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Cina: una che vede solo rischi e un’altra che vede opportunità. L’ossessione per lo yuan ricade nella prima categoria: non tiene conto del riequilibrio e delle riforme già in corso in Cina e distoglie l’attenzione dell’America dalla necessità di affrontare il suo problema macroeconomico più serio sul lungo termine, la carenza di risparmi. Al contrario, vedere la Cina come un’opportunità mette in luce la necessità, per l’America, di occuparsi dei suoi squilibri, ricostruendo la competitività del Paese e dandosi da fare per accaparrarsi una quota significativa del boom prossimo venturo della domanda interna cinese.
(Traduzione di Fabio Galimberti)