Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 1/5/2014, 1 maggio 2014
EMILIO RIVA, RAGIONIERE DELL’ACCIAIO SEGNATO DALL’ILVA
L’imprenditore siderurgico Emilio Riva, malato da tempo, è morto ieri notte a Milano all’età di 87 anni. Negli ultimi due anni è stato protagonista - silenzioso - dell’affaire Ilva. Principale imputato nel processo per disastro ambientale avviato dalla magistratura di Taranto intorno all’acciaieria, a quello che è stato realizzato (e non è stato realizzato) per conciliare efficienza produttiva e benessere dei lavoratori, livelli tecnologici e controllo delle emissioni. Nella sua vita il "ragiunatt" ("il ragioniere") ha fatto molte cose. Intorno a lui - fino alla vicenda giudiziaria - non ha mai aleggiato alcun epos, né suggestivamente noir né ambiguamente positivo. Un uomo del Novecento, espressione dura e vitale di un Paese uscito con i vestiti lacerati dalla Seconda Guerra Mondiale, alla cui rinascita la nuova industria privata ha contribuito in maniera determinante, con la sua carica di imprenditorialità e la sua instancabile forza progettuale.
La sua vita ha avuto come epilogo l’anno intero in cui è rimasto agli arresti domiciliari, nella villa di Malnate. A questo pesante conflitto fra lavoro e salute - il 19 giugno si discuterà a Taranto della richiesta di rinvio a giudizio degli altri 52 imputati - si è aggiunto il filone per reati valutari e fiscali attivato dalla procura di Milano, che ha portato al sequestro - a lui e al fratello Adriano - di 1,9 miliardi di euro.
La sua vicenda inizia con il Boom degli anni Cinquanta imperniato sul triangolo industriale Milano-Torino-Genova e prosegue con l’industrializzazione a prato basso sperimentata negli anni 60 e 70 dal Nord-Est e dalla dorsale adriatica. Il signor Emilio, con le sue forniture, c’è sempre. Tutti quanti - dagli aristocratici Agnelli di Torino ai "magutt" ormai padroncini della Bergamasca, dal geniale Cavalier Borghi di Varese agli sconosciuti artigiani di Treviso con le narici ipersensibili all’odore dei soldi - usano nei loro prodotti il suo acciaio. Tutti condividono con lui l’energia del loro tempo. L’energia di chi si è lasciato le macerie alle spalle e che, in un gioco di specchi fra la prosperità del Paese e il proprio successo personale, è in fondo convinto di avere ragione, anche quando fa qualcosa che non va. Neutralità rispetto alla politica, da tenere lontana e da usare - all’occorrenza - con metodi spicci. Tanto lavoro. Un misto di rigorismo organizzativo e di lasciar fare anarcoide, uno degli elementi costitutivi del capitalismo italiano, né bello né buono, semplicemente quello che siamo.
Per otto anni Emilio lavora sotto padrone con Umberto Colombo, un imprenditore nato nel 1880. Diventa suo socio. Nel 1954 fonda la ditta con il fratello Adriano. Il 7 marzo del 1957 entra in funzione il primo stabilimento con la tecnologia del forno elettrico a Caronno Pertusella, in provincia di Varese. Con il commercio dei rottami ferrosi inizia la sua competizione contro i vecchi baroni della siderurgia. I Falck e gli Orlando. I grandi gruppi privati. Ma anche l’agglomerato pubblico, le attività dell’Iri create da Oscar Sinigaglia. Lo fa da outsider. Nel 1964 introduce la colata continua, che diventerà uno standard produttivo. Promuove un’organizzazione industriale la più piccola e più snella possibile. Comprime al massimo i costi di produzione. E, fin da allora, mostra abilità commerciale: «Mai vendere sotto costo il tuo acciaio».
In generale il profilo dell’imprenditore è segnato da un fattore specifico: il marketing, la tecnologia, l’organizzazione, le relazioni industriali. Per Emilio Riva è la gestione operativa. Ricavare da uno stabilimento ogni grammo di produttività possibile. Non rinunciare mai a un chilo di acciaio. Estrarre dal bilancio ogni centesimo. Tanto che, il suo soprannome, il "ragioniere", è perfettamente conforme a questa sua capacità di stillare ogni goccia di valore industriale dall’acciaieria.
Per lui i sindacati quasi non esistono. In fondo è l’espressione di un padronalismo lombardo primitivo - con una forte matrice varesina e brianzola - per cui il perno dell’ingranaggio industriale resta l’imprenditore, demiurgo della fabbrica capace di estemporanei atti di generosità e di vicinanza all’altro, ma più come empito umano che ha sullo sfondo una sorta di cattolicesimo naturale e popolare. Nella sua vicenda le cose e le parole si sovrappongono, si influenzano, si determinano, si contraddicono: «A me la parola padrone non piace. Non sono nemmeno padrone di un cane».
Nel 1975, finisce in carcere con l’accusa di omicidio colposo per un incidente sul lavoro nell’impianto di Caronno Pertusella. Lo chiude e manda tutti a casa: «Finché non esco io, la fabbrica resta chiusa e senza lavoro». Negli anni 80 (scintillanti e segnati da una nuova dimensione pubblica e mediatica di manager e imprenditori come Mario Schimberni e Raul Gardini, Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti) Emilio Riva se ne sta appartato. Poche prime alla Scala. Mai a San Siro. Non cerca notorietà. È sempre in silenzio. È concentrato sulla progressiva strategia di acquisizione di imprese che, nelle mani sue e dei figli, tornano a produrre utili. Nel ’94 la privatizzazione dell’Iri consente ai Riva di aggregare alle loro imprese l’Italsider e - grazie al ciclo integrale - di diventare uno dei protagonisti della siderurgia mondiale.
Il problema è che Taranto diventa presto una questione maledettamente complicata. Il clientelismo politico e il lassismo sindacale dello Stato Padrone al suo peggio hanno trasformato l’acciaieria in una terra di nessuno. Nella fabbrica il capo della criminalità organizzata locale, Antonio Modeo detto "Il Messicano", ha un ufficio in cui commercia in rottami. I venticinque anni di industria primaria pubblica hanno devastato la terra e il cielo di Taranto.
La risposta dei Riva è una meticolosa campagna di investimenti dentro all’acciaieria. Questi investimenti servono sì a bonificare la struttura, ma hanno come primo elemento l’efficienza industriale e la redditività del bilancio. E lo stile gestionale, da severo, si fa subito duro e inflessibile. Il risultato è l’accentuazione della distanza fra la comunità e la fabbrica, fra Taranto e l’Ilva, che crea le condizioni perché il problema ambientale - una questione di lungo periodo gestita in maniera troppo semplicistica e spiccia - divampi in un incendio giudiziario che brucia tutto lasciando molti tipi di cenere: l’ignavia della classe politica, l’insipienza dei sindacati e in fondo anche i limiti del ceto imprenditoriale italiano, oscillante fra la centralità della sua cultura industriale e la costruzione di universi paralleli "fiscalmente utili", la cui scoperta ha gettato una ombra sulle ragioni dei Riva.
Emilio, nella sua elementarietà, è stato un uomo del secolo scorso. Un giorno, a metà anni 90, in Confindustria Calisto Tanzi parla della necessità, per le imprese italiane, di fare più finanza e di andare in Borsa. Emilio, in mezzo agli altri, resta di solito in silenzio. Questa volta interviene: «Non sono d’accordo. Vede, signor Tanzi, se io la prendo per i piedi e la scrollo, dalle sue tasche esce tanta, tanta carta. Se invece prende me per i piedi, dalle mie tasche escono tanti, tanti soldi. Ecco la differenza tra noi due». Dopo quelle parole, che fissano una specie di canone dell’imprenditore manifatturiero italiano, ci sarà l’Ilva, dove il "ragiunatt" investirà in tecnologie ambientali 4 miliardi di euro: una somma adeguata per lui, ma insufficiente per la magistratura.