Cristina Gabetti, Corriere della Sera 1/5/2014, 1 maggio 2014
RIZZOLATTI, IL RE DEI NEURONI SPECCHIO «IN ITALIA MI TRATTANO DA IMPIEGATO»
Giacomo Rizzolatti è una star della scienza. La sua scoperta dei neuroni specchio, che ha posto le basi fisiologiche dell’empatia, appassiona ricercatori e professionisti di ogni campo. Oggi a Copenaghen la principessa Mary di Danimarca gli consegna il Brain Prize, premio nato solo nel 2011 ma già autorevole. Quest’anno è stato assegnato a scienziati che si sono distinti nella ricerca sui meccanismi superiori del cervello e per l’impegno nello studio dei disturbi cognitivi e comportamentali. Insieme a Rizzolatti saranno premiati il francese Stanislas Dehaene, e l’inglese Trevor Robbins.
Professore, cosa significa per lei questo premio?
«Sono contento sia per me sia per la scienza italiana, che nonostante le difficoltà rimane di alto valore. Inoltre, mi ha fatto piacere riceverlo da un Comitato di cui presidente è Colin Blakemore, professore a Oxford per molti anni e con il quale, in passato, siamo stati un po’ competitor. Bello, no? Aver superato una piccola rivalità nel nome di valori più alti. Poi la cifra è ingente».
Un milione di euro, più ricco del Nobel che ultimamente è stato ridotto.
«Il Brain Prize è stato istituito da una ditta farmaceutica, la Lundbeck, con molti mezzi a disposizione. È specializzata in psicofarmaci per malattie del sistema nervoso; anche per questo si interessa di neuroscienze cognitive, campo che peraltro è abbastanza trascurato dal Premio Nobel, non per cattiveria o partigianeria, ma perché l’Accademia svedese è formata prevalentemente da esperti in fisiologia cellulare che capiscono meglio l’importanza di una ricerca nel loro campo».
Come pensa di destinare la somma?
«Sarebbero tutti soldi miei, però non mi sembra giusto mettermeli in tasca. Pensavo di destinarne una parte a un fondo per la ricerca per il Dipartimento di neuroscienze. La burocrazia è diventata insopportabile e l’unica soluzione per lavorare bene è di avere fondi al di fuori dell’amministrazione universitaria. Pensi che nel nostro dipartimento c’e un canadese che voleva comperare un pezzo di plastica, gli occorreva per un esperimento. Costo, trenta euro. Ci hanno detto che dovevamo seguire la trafila stabilita di una “spending review”. Attesa: un paio di settimane. O paghiamo di tasca nostra o smettiamo di lavorare. Non le dico se uno ha bisogno di una prestazione professionale! Deve chiedere il permesso al rettore, che deve fare un annuncio a tutta l’università per vedere se qualcuno si presta gratuitamente, dopodiché, ovviamente nessuno si presta, si istituisce il concorso, si aspettano 20 giorni perché il bando diventi pubblico, si fa il concorso che, concluso, va alla Corte dei conti per l’approvazione. Se voglio un’analisi statistica devo aspettare tre mesi. In Germania l’hai in un giorno. Ci trattano come il catasto o il ministero dei Trasporti, dove forse è logico contenere al massimo i prezzi, ma per un pezzettino di plastica...»
Per le spese ordinarie ci dovrebbe essere un responsabile di dipartimento che verifica che non si sperperi.
«Certo, ma l’Amministrazione Universitaria non si fida. Nei paesi anglosassoni si va sulla fiducia — chiaro che se fai qualche cosa di male poi sei finito. Da noi tra spending review e la legge Gelmini è praticamente impossibile lavorare. Il fondo che voglio creare servirà anche per queste piccole cose».
Come lo chiamerà? The Giacomo Rizzolatti Foundation?
«(Ride) Oddio, detto così suona un po’ “grand”, diciamo Foundation for Parma Neurosciences; il mio ramo, avendo meno ricadute mediche, ha più difficoltà ad accedere a fondi privati per la ricerca rispetto a quello cellulare o molecolare, più vicino all’industria».
Quali dei progetti in corso nel suo dipartimento la entusiasmano di più?
«Come possibilità futura m’interessa la ricerca che facciamo con l’ospedale Niguarda a Milano: registrare l’attività di singoli neuroni nell’uomo. È una tecnica di avanguardia che stiamo mettendo a punto. Il Centro per l’Epilessia del Niguarda è uno dei migliori e più operativi in Europa. Studiano un malato a settimana: impiantano degli elettrodi nella testa del malato, dopodiché non possono operare subito perché devono capire dov’è il focolaio epilettico. Durante questo periodo il malato è a letto, cosciente, si annoia pure, quindi è disposto a collaborare con uno sperimentatore per altri test, e siccome gli elettrodi sono già collocati, noi possiamo capire quali aree si attivano meglio che con la risonanza magnetica. Poi ci sono le ricerche presso il nostro istituto sull’autismo».
M i sembra di capire che il premio la impegnerà un po’...
«Si. In questi giorni ci sarà un convegno scientifico a Copenaghen, la cerimonia con la principessa e un evento all’ambasciata italiana. Poi la Fondazione sta creando un’accademia dei premiati affiancati ad alcuni scienziati danesi, e mi hanno chiesto di partecipare alla formazione del nucleo dell’Academy».
Dal nord Europa che cosa importerebbe per la sua Facoltà di Parma?
«Sarebbe bello, si potesse, importare la fiducia. Ce n’è molto bisogno in Italia».
Si dovrebbe inocularla nel cervello...
«Giusto! Inoculare che non siamo delinquenti nati, siamo brave persone se ci lasciano lavorare in pace.»
A proposito di migliorie al sistema, nel 2008, durante la riforma Gelmini, lei avanzò una proposta importante sul sistema universitario e sulla ricerca.
«Suggerivo di abolire le cattedre universitarie a vita, instaurando un sistema per cui ogni cinque anni una commissione ti esamina. Puoi restare fino a 90 anni se sei capace, altrimenti vai a casa anche a 50. Tengo molto a rilanciare questa proposta. Sei anni fa ricevetti molte lettere da giovani che dicevano: lei è un bell’egoista, ha avuto il posto a vita e adesso ci vuole controllare. Io pensavo che sarebbero stati contenti — se mandi via tutta una serie di 50-60enni che non fanno niente, hai più posto per i giovani. Il merito è un concetto basilare per l’università, forse per il catasto no; non credo ci sia una grande differenza tra un impiegato e l’altro, ma tra un professore universitario e un altro, sì». È il sistema adottato al Riken, un centro di ricerca giapponese di altissimo livello parallelo all’università. Lì non fanno complimenti, ti convocano e ti dicono: la sua produzione scientifica non è considerata buona, le diamo due anni per trovarsi un altro posto».
Dei veri samurai! Tornando al premio, non vorrei essere indiscreta, ma la parte che terrà per sé come la spenderà?
«Destinerò qualcosa ai miei figli, non gli dispiacerà avere dei fondi, magari per realizzare un sogno. E il resto starà lì, per ogni evenienza».
Un regalo a se stesso non lo fa?
«Pensavo di invitare a cena i miei collaboratori, ma a me non serve niente. Mi hanno detto: perché non compri una nuova macchina? Ce l’ho già. Sono contento di quello che ho».
Che macchina ha?
«Una Bmw, quindi non proprio piccolina».
I suoi nipoti come hanno reagito all’assegnazione di questo premio?
«Di solito non si emozionano troppo, ma stavolta sono contenti. Di regola i premiati possono portare una persona, invece stavolta la Fondazione ha invitato anche i parenti, e io ho portato i miei nipotini».