Silvio Piersanti, il venerdì 2/5/2014, 2 maggio 2014
TOKYO, UN’ORCHESTRA DI RUMORI
Uno tsunami acustico investe la città di Tokyo ogni giorno. Il più grande agglomerato urbano del mondo con i suoi oltre 30 milioni di ben educati abitanti, vive e prospera nella più totale anarchia sonora. Ogni negozio - grattacielo o bugigattolo che sia - sciorina bontà e convenienza dei propri prodotti con annunci diffusi sul marciapiede antistante da altoparlanti. Spesso gli annunci sono ripetuti a viva, vivissima, voce da «imbonitori» in azione davanti al negozio, cercando di sopraffare la voce degli altoparlanti della propria bottega e di quella degli esercizi adiacenti in un’incessante battaglia all’ultimo decibel. Un’idea della quantità di negozi di Tokyo la da la mancanza di graffiti. Non perché siano proibiti, ma semplicemente perché non ci sono muri da imbrattare, essendo i negozi uno adiacente all’altro per chilometri senza soluzione di continuità.
Se cercate di sfuggire al bailamme di questa eterna fiera e di tomarvene a casa nel vostro «quieto» quartiere di semiperiferia, cadete dalla padella nella brace: sulla metropolitana sarete il «target» di interminabili annunci che avvisano in quale stazione il treno sta per fermarsi, vi precisano se si apriranno le porte di sinistra o di destra, vi snocciolano tutte le coincidenze a disposizione dei viaggiatori, si raccomandano di non dimenticare l’ombrello o altri oggetti. Il tutto in giapponese, inglese, e, sempre più spesso, anche in cinese e coreano. Gran parte di questi annunci appaiono anche su schermi televisivi dove sono inframmezzati a micio lezioni di inglese o altra lingua straniera. Se il convoglio viaggia con qualche decina di secondi di ritardo, la voce del capotreno si sovrapporrà a quella di tutti gli altri messaggi per comunicarvi in dettaglio le ragioni dell’imperdonabile disservizio e chiedere scusa per il disturbo. In questa giungla di suoni riesce a farsi largo anche una serie di messaggi pubblicitari.
Quando finalmente, a colpi di gomito (in metropolitana nelle ore di punta, ogni codice di buone maniere è sospeso), riuscite a guadagnare la porta e a scendere, sarà una marcetta a voi famigliare, diffusa a tutto volume, ad accogliervi e darvi conferma che siete a casa. Ogni stazione ha infatti la propria musica di «identità», scelta da un comitato di psicologi perché ritenuta capace di risollevare il morale degli aspiranti suicidi e convincerli a dare un’altra chance alla propria esistenza, rinunciando alla decisione di gettarsi sotto un treno dopo un ultimo inchino al mondo.(Il Giappone condivide con la Corea del sud il tragico record mondiale del più alto numero di suicidi: uno ogni 15 minuti).
Ma le sofferenze dei vostri timpani non sono terminate. Per arrivare a infilare la chiave nella porta di casa, dovete camminare lungo le forche caudine dello shottengai (strada degli acquisti), un vero e proprio suk che può snodarsi per più di un chilometro. Normalmente è ricoperto da una tettoia di vetro affinché la pullulante folla di acquirenti possa godersi il frenetico shopping anche nei giorni di pioggia e ha l’aria condizionata nelle lunghe estati roventi. Gli shottengai sono strategicamente dislocati lungo i percorsi che dalla metro si dirigono a raggiera verso le zone residenziali, quindi, volenti o nolenti, ci si finisce sempre dentro. Lo shottengai ha una straordinaria densità di negozi che si sviluppano anche sotto terra e nei piani superiori. Il grado di inquinamento acustico raggiunge qui il suo massimo. Con grida stentoree di centinaia di imbonitori e annunci da altoparlanti, siete sollecitati all’acquisto di spiedini di pollo, katanà (sciabole da samurai), frutta e verdura biologica (i prezzi che vedete e sentite non sono al kg, ma al pezzo, un euro ad albicocca, due euro a pomodoro ecc...), tombe in marmo, sushi, massaggi (un tanto a quarto d’ora), kimono antichi e moderni, cene con escort femminili e/o maschili, elicotteri, uniformi da judo... non c’è assolutamente nulla che non sia possibile acquistare in un shottengai di Tokyo. Fate appena in tempo a liberarvi dalle spire dell’assordante serpentone e i vostri timpani subiscono un altro duro oltraggio: la sirena di un’ambulanza o di un’auto della polizia. Questi veicoli squarciano l’aria con suoni laceranti, e soprattutto vi intimoriscono e umiliano gridando ordini perentori dai loro altoparlanti:
«Adesso giriamo a destra, levatevi da D. aclista, hai sentito? Muoviti. Ormai è tardi, stai fermo, ti sorpassiamo a sinistra. Ora attraversiamo la piazza, fermi tutti, che fate? Non volete fermarvi? Quella signora col bambino, presto, presto, via da B».
Nella rapsodia cacofònica di Tokyo hanno un ruolo di rilievo anche i camion che entrano ed escono in continuazione dai cantieri edili. Ogni manovra va effettuata con l’assistenza di un addetto a terra che dando indicazioni all’autista grida incessantemente a squarciagola sino al termine della manovra orai, orai, orai, gapponesizzazione fonetica dell’espressione inglese ali right (tutto bene). Se poi vi dovesse capitare di trovarvi nel mezzo di una delle non rare manifestazioni dell’estrema destra, allora pensereste davvero di vivere un incubo: queste associazioni parapolitiche e paramilitari, invadono le strade con carovane di mezzi blindati a cui mancano solo i cannoni per rientrare nella categoria dei carri armati. Tra un frenetico sventolio di bandiere imperialistiche, gli altoparlanti vomitano minacciosi slogan a più di cento decibel, facendo tremare i vetri dei negozi e le «vene e i polsi» dei passanti. A volte, basta girare l’angolo e trovarsi nel mezzo di un rock festival con musica diffusa da altoparlanti altrettanto (pre)potenti di quelli dei fanatici nazionalisti a cui siete appena sfuggiti. Sarà quasi inevitabile trovarvi nei pressi di una sala pachinko, sorta di flipper gigante di cui vanno pazzi i giapponesi (non c’è quartiere dove non ci sia almeno una dozzina di sale in frenetica attività): le grandi porte si spalancheranno automaticamente al vostro passaggio e sarete investiti da un frastuono insostenibile per uno sprovveduto pedone occidentale ma apparentemente irresistibile per un abitante dell’impero del crisantemo.
Il vostro slalom tra i picchi del frastuono non finirà prima di aver ascoltato canti di uccelli e canzonane ad ogni semaforo per avvisare i distratti (e i non vedenti) che è il momento di attraversare. Incidentalmente, se sentite una madre che incita il figlio assorbito nella lettura di un manga «forza, il semaforo è blu», non pensate che sia daltonica. In Giappone i primi semafori, circa un secolo fa, indicavano via libera con la luce blu, au. E sebbene da tempo anche nel Paese del sol levante i semafori danno il via libera col verde, i giapponesi continuano a chiamarlo au.
E dunque siete a casa. Vi siete tolti le scarpe, avete infilato le pantofole e varcato la soglia. Vi siete distesi sul tatami (stuoia di paglia di riso). Vi apprestate a godervi il silenzio bravamente conquistato, ma ecco che una suadente voce femminile vi raggiunge con un’offerta di ritiro gratuito di elettrodomestici fuoriuso. Vi rialzate a fatica, vi sfilate le pantofole, infilate le scarpe e uscite, per scoprire che la voce viene da un nastro registrato diffuso da un altoparlante sul tetto di uno scassato camioncino al cui volante siede un omaccio che vi avvisa che in realtà il ritiro non è gratuito. Delusi, abbozzate un inchino e rientrate. Ma altri venditori ambulanti sono in agguato: c’è il grido melanconico e antico del venditore di patate dolci alla brace (yakimoo), quello che vende ramen (spaghetti in brodo), quello del tofu, ecc. E non si sfugge alla toranpetto supika. le parole inglesi trumpet speakers pronunciate dai giapponesi ravviso sonoro (in genere una canzoncina) diffuso dagli altoparlanti in tutta la sterminata ritta all’ora del tramonto per segnalare ai bambini che è ora di tornare a casa. È straordinaria la completa assuefazione di Tokyo a questo incessante bombardamento sonoro. Non sofà non fanno nessuna pressione sulle autorità per combattere il soon gokai, l’inquinamento acustico), ma molti coltivano un vero amore per quella che viene chiamata la soundtrack (la colonna sonora), della megalopoli giapponese. C’è anche un’organizzazione che offre tour per far sentire ai turisti tutti i rumori della capitate. «Se non d fossero, Tokyo non sarebbe la mia città» commenta un mio anziano vicino, mentre si aggiusta (’auricolare per essere sicuro di sentirli bene tutti.