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 2014  maggio 01 Giovedì calendario

IL SIGNORE DELL’ACCIAIO CHE INIZIÒ CON I ROTTAMI


Un impero dell’acciaio che ha corso i suoi primi chilometri su un camion Dodge. E che oggi conta su una quarantina di stabilimenti in Italia e nel mondo, dal Canada alla Francia, dalla Spagna alla Tunisia, per la produzione di acciaio grezzo, coils, lamiere da treno, tubi saldati e che fattura 10 miliardi impiegando circa 25 mila dipendenti. È la storia molto italiana dell’avventura imprenditoriale di Emilio Riva, morto ieri a 87 anni, cominciata con il commercio dei rottami.
Grande protagonista delle privatizzazioni, fino a luglio 2013 agli arresti domiciliari per il «disastro ambientale» dell’Ilva di Taranto, accusa che ha sempre respinto e lo ha segnato profondamente. Successivamente è rimasto l’obbligo di non lasciare il comune di Malnate, dove c’è la sua grande villa con parco. I frequenti ricoveri anche urgenti a Milano degli ultimi mesi hanno dunque richiesto i permessi preventivi del giudice. Fino all’ultimo, pur consumato dalla malattia, ha difeso se stesso e la propria storia di imprenditore: «Io non sono un assassino di bambini», «non ho mai lasciato a casa un operaio», «non ho mai chiuso un’azienda». Frasi che ha ripetuto all’infinito nella sua ultima battaglia, conclusa ieri.
La sua storia, con la parabola finale che lo ha colpito duramente quando, il 26 luglio 2012, il gip Patrizia Todisco ha disposto il sequestro su (praticamente tutto) lo stabilimento pugliese, è per certi versi comune a quella di tanti imprenditori italiani che si sono fatti praticamente dal nulla. Ma per altri si distingue profondamente perché, mentre grandi dinastie della siderurgia sono tramontate negli ultimi anni perché non hanno sostenuto la concorrenza internazionale e hanno preferito vendere o chiudere gli impianti, lui è diventato, e lo è rimasto fino ai sigilli, il primo produttore di acciaio italiano e fra i primi del mondo.
Una vera saga familiare, iniziata nel 1954 quando Emilio, nato il 22 giugno 1926 a Milano e figlio di un commerciante di scarti ferrosi, avvia a sua volta un’attività di commercio di rottami con il fratello Adriano. Rottami che vende ai siderurgici bresciani trasportandoli su un camion Dodge. Solo tre anni dopo però inizia a produrre acciaio lui stesso a Caronno Pertusella: è il primo forno delle Acciaierie e Ferriere Riva, che adotta la colata continua prima dei concorrenti. Un vantaggio che gli permette di crescere anche per acquisizioni, con una regola: «Non compro mai quando va bene, ma quando va male». Regola che lo porterà anche all’estero negli anni Settanta con acquisizioni anche in Spagna e Francia. E che è di fatto la chiave del suo grande salto quando la crisi mondiale dell’acciaio non risparmia i giganti pubblici europei. Diventa così uno dei protagonisti delle privatizzazioni degli anni Novanta. Entra nella gestione di Cornigliano, compra un impianto anche nell’ex Germania Est e, nell’aprile 1995, «conquista» il centro siderurgico di Taranto più altri impianti minori, caricati di un miliardo di debiti: li compra a 660 milioni. Il «ragiunatt», come viene chiamato fin dagli inizi, i conti li sa fare. E mantiene tutto, carriera, valori economici, e gestione, sotto una quasi maniacale riservatezza, all’insegna di un understatement che certamente non si era mai visto prima negli stabilimenti ex pubblici. «Quando sono arrivato era un ferro vecchio», ha detto Emilio Riva dell’Ilva. L’allora Italsider «me la sono presa che era un disastro, l’ho rinnovata e oggi è ancora un arnese perfettamente funzionante, nonostante tutto». Già, nonostante la parabola finale che gli ha portato un lungo elenco di reati, dal disastro ambientale all’avvelenamento di sostanze alimentari, dalla truffa al riciclaggio. E lui: «Ma cosa ho fatto di male? Ho investito una marea di denaro...».
Un imprenditore che mette faccia e soldi, e che tiene all’unità familiare distinguendo però i ruoli: dei sei figli i quattro maschi partecipano all’attività del gruppo, mentre le due «ragazze» no («Stimo molto le donne, ma in azienda non devono mettere piede»). Non un capitalista però e soprattutto non un «padrone». «A me questa parola non piace», ha detto, «non sono nemmeno padrone di un cane. Sono un datore di lavoro». Parole che affianca ad affermazioni più generali, come queste: «Non so niente di lobby, di compromessi con la grande finanza e di salotti». Solo che anche lui, pur nella distanza della riservatezza che in passato si manifestava anche al centralino, quando non si rispondeva con il nome dell’azienda ma con il numero telefonico, un’attenzione alla politica l’ha sempre avuta. E dimostrata in casi come l’Alitalia, quando ha partecipato alla cordata dell’italianità.
Un’avventura lunga, dunque, conclusa nell’amarezza: l’inquinamento dell’Ilva, il disastro ambientale, il sequestro dei beni del gruppo poi sconfessato dalla Cassazione, l’arresto, la malattia, l’attesa del «grande processo», che comincerà fra poco. «Certe volte mi sembra sia tutto un incubo», diceva. E che voleva scacciare, difendendosi. Fino all’ultimo.