Dario Di Vico, Corriere della Sera 1/5/2014, 1 maggio 2014
PADRI CONTRO FIGLI FRA I CINESI DI PRATO: LOTTA GENERAZIONALE PER LA LEGALITÀ
Sono passati esattamente sei mesi dal rogo della Teresa Moda, l’azienda del Macrolotto di Prato dove trovarono la morte 7 operai cinesi. L’inchiesta giudiziaria va avanti e gli indagati per omicidio colposo plurimo aggravato sono cinque, tre asiatici più i due italiani proprietari dell’immobile. Si pensava che il tragico avvenimento potesse fare da spartiacque nella storia industriale di Prato ma così (per ora) non è stato. I blitz delle forze dell’ordine contro i capannoni illegali continuano con regolarità e in città si vota per rinnovare il sindaco ma si discute dell’aeroporto di Peretola più che di Chinatown. Di conseguenza i movimenti più interessanti da monitorare sono quelli che attraversano la comunità cinese, che si esprimono in primo luogo attraverso un conflitto generazionale tra padri e figli.
È appena uscito un libro del giornalista Giorgio Bernardini che si intitola «Chen contro Chen» e racconta storie di giovani attorno ai 25 anni per lo più nati in Toscana. «La maggior parte di loro si domanda se sia veramente cinese o veramente pratese: un dubbio esistenziale che li tormenta. E intanto mangiano più spesso la pasta che il riso». Combattono ogni giorno con i loro genitori perché i piccoli Chen vogliono restare in Italia. O tutt’al più sognano di andare a Londra per approfondire gli studi. Ma, è giusto chiedersi, la svolta di cui ha bisogno Prato per costruire convivenza civile e riscatto economico può davvero venire dai cinesi di seconda generazione?
Alessandro Hong ha 27 anni e si occupa di amministrazione e commerciale nell’azienda di pronto moda del papà, che rifornisce anche grandi marchi dell’abbigliamento. Se lui è entrato da subito in fabbrica il fratello Guo (17 anni) può studiare e fare sport e aspirare, magari, un giorno ad andare in una università straniera. A dividerli dai genitori è la concezione totalizzante del lavoro ma sanno che per cambiare le cose sarà necessario un processo lungo. «Il ghiaccio formatosi in 20 anni non si scioglie in due giorni» dice Alessandro, sfoggiando un perfetto accento toscano. Subito dopo spiega come per arrivare alla legalità nella Chinatown pratese ci voglia uno sforzo da entrambe le parti, «santi non ce n’è». Sostiene che molti suoi connazionali sono spaventati dai controlli con i cani-poliziotto e non è facile come prima trovare operai che vogliano cucire. Qualche ditta cinese ha provato anche a ingaggiare cingalesi e pakistani ma non sono stati giudicati abbastanza capaci e veloci. «Non hanno la manualità dei cinesi». Alessandro spiega come i prezzi bassi non li decidano gli asiatici ma li facciano i compratori occidentali, «e sei obbligato a lavorare 18 ore altrimenti non riesci a consegnare in tempo le ordinazioni». Per lui a Prato non ci sono schiavi «nessuno li costringe a dormire nei capannoni, piuttosto in città mancano le case».
I giovani imprenditori cinesi come Alessandro Hong o Gabriele Zhang, che aveva letto la sera della cerimonia funebre un discorso che chiedeva legalità, sembrano avere le carte per farcela. Non vanno lasciati soli. Anche perché i cinesi per la pessima abitudine di girare con il rotolone di contanti addosso sono diventati, come dicono i pratesi, «il bancomat delle bande di maghrebini» che li rapinano a getto continuo e rafforzano così la loro sensazione di vivere in una città insicura.