Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 1/5/2014, 1 maggio 2014
«VERGOGNA». LA REAZIONE DELL’«ALTRA POLIZIA»
Alla fine tutti accusano tutti di strumentalizzazione, e si lamentano di essere strumentalizzati. Chi ha applaudito i responsabili della morte violenta di Federico Aldrovandi si sente «vittima di un bombardamento mediatico negativo»; chi viceversa, indossando la stessa divisa, condanna quel gesto, ne accusa i protagonisti di «cavalcare per fini sindacali il malessere della polizia italiana». Che comunque esiste, e ha solide ragioni. La «vicenda inaccettabile» stigmatizzata anche dal presidente Napolitano, evidenzia almeno due aspetti del problema: da un lato il singolo e sconcertante episodio, dall’altro la situazione generale che quello stesso episodio mette in luce.
Oltre la memoria offesa del ragazzo ucciso, o l’agente in borghese che venti giorni fa calpestò una manifestante a terra. In mezzo, come un celerino in servizio tra dimostranti all’assalto e i simboli delle istituzioni da proteggere, c’è il capo della polizia. Il quale deve tenere conto delle singole circostanze e del contesto complessivo. Ecco perché, ancora ieri mattina nelle riunioni al Viminale, il prefetto Alessandro Pansa continuava a considerare inqualificabile l’applauso al congresso riminese del Sap, senza alcuna possibilità di giustificazione, ma al tempo stesso si mostrava consapevole delle difficoltà che quel fatto segnala. A cominciare da organizzazioni di categoria, soprattutto quelle più «corporative», che in assenza di risultati economici che non arrivano diventano lo sfogatoio naturale di malumori e proteste.
È stata una reazione ferma e decisa, quella del prefetto Pansa, che gli è valsa critiche più o meno esplicite; dai vertici del Sap («i suoi giudizi non li condivido per nulla», ha detto il segretario Gianni Tonelli) a quelli del Consap, secondo cui è ormai sancita «l’assoluta distanza tra il capo della polizia e gli operatori». Conclusione magari un po’ affrettata, se è vero che all’interno dello stesso Sap (seconda organizzazione per numero di aderenti, circa 18 mila) i social network di categoria hanno registrato molte dissociazioni dall’applauso per i colleghi giudicati colpevoli di omicidio colposo: «Disgusto totale», «vergogna», «uno schifo». Il segretario Tonelli prova a sminuire, virando sulla convinzione che i condannati siano innocenti: «La revisione della sentenza è sostenibile sulla base della documentazione processuale», sostiene, forse dimenticando che per ottenere la revisione ci vogliono elementi nuovi rispetto a quelli emersi nel processo. Ma la vera questione segnalata dall’episodio di Rimini, per l’appunto, è il disagio che non nega nemmeno chi depreca quella «solidarietà degna di miglior causa».
Felice Romano è segretario del Siulp, sigla maggioritaria che raccoglie 25 mila iscritti, e oltre a condannare l’applauso spiega che le ragioni del malessere che si respira tra le divise trova le sue principali spiegazioni in «quattro miliardi di tagli, 23 mila unità in meno, contratto bloccato da cinque anni, un assurdo tetto salariale per chi avanza in carriera e una formazione militare che è l’antitesi di quella che era e dovrebbe tornare ad essere l’educazione di un poliziotto». Poche e chiare parole per riassumere una condizione dalle «molteplici criticità», nella quale possono facilmente annidarsi populismi interni di vario genere. Compresi quelli sfociati nell’ovazione di Rimini, che la segretaria dell’Associazione funzionari di polizia, Lorena La Spina, bolla come «un gesto incomprensibile e gravemente offensivo».
La «formazione militare» denunciata da Romano è figlia dell’abolizione della leva obbligatoria, che impone un passaggio dalle forze armate per chiunque voglia entrare in polizia. «La conseguenza — spiega il segretario del Siulp — è che quando sono arrivato io, nel 1981, avevo come modello Serpico, mentre chi arriva adesso ha il modello della “guardia armata” con regole d’ingaggio fin troppo semplici: obiettivo da difendere, limite da non oltrepassare, chi passa il segno va abbattuto; per la polizia che vogliamo, invece, il ricorso alla forza dev’essere la soluzione estrema cui ricorrere, dopo aver tentato tutte le altre vie». Un esempio che fa pensare insieme agli ultimi due episodi che hanno fatto discutere: le violenze in piazza (dei dimostranti e delle forze dell’ordine) e, appunto, il ritorno del caso Aldrovandi.
Anche il responsabile del Silp-Cgil, Daniele Tissone, prende le distanze dagli applausi congressuali, «dimostrazione evidente che c’è ancora molto da fare sul versante della formazione interna». E chiarisce che certamente il problema economico esiste, «ma non è che altri nel settore del pubblico impiego stiano meglio, quindi bisogna essere consapevoli e responsabili». Pur in presenza di contesti preoccupanti e a rischio, come quello della crisi economica che genera disagio sociale, proteste e appuntamenti in piazza che possono degenerare, anche a causa dei «professionisti della violenza» sempre pronti all’azione: «Noi siamo chiamati a difendere i diritti di chi vuole manifestare democraticamente, oltre che a far rispettare la legge. E probabilmente sarebbero opportune norme che, com’è accaduto in Germania, costituiscano una vera deterrenza alle violenze. In ogni caso una scena come quella dell’altro ieri è il modo più sbagliato e perfino controproducente per sostenere le nostre istanze».
Tutti concordano nel ritenere che agli uomini in divisa, a qualunque forza di polizia appartengano, tocca purtroppo supplire alla colpevole assenza di mediazione politica su questioni che non dovrebbero diventare mere questioni di ordine pubblico: dal diritto alla casa, alla Tav, a rivendicazioni d’altro tipo. «Noi siamo chiamati a fronteggiare situazioni che andrebbero affrontate prima sul piano politico ed economico», dicono i rappresentanti sindacali; «ci sentiamo come netturbini, chiamati a raccogliere dalla strada quella che altri considerano immondizia, con un lavoro sottopagato e malconsiderato dalla collettività», traducono alcuni di quelli chiamati in servizio con gli stipendi bloccati e gli straordinari non pagati. Un quadro non tranquillo né tranquillizzante. Del quale gli «applausi della vergogna», strumentalizzati o meno, sono una ulteriore, inquietante spia.