Ferdinando Camon, La Stampa 1/5/2014, 1 maggio 2014
BERLUSCONI NEI SILENZI DELL’ALZHEIMER
Silvio Berlusconi si occuperà dei malati di Alzheimer, e i barzellettisti si scatenano a immaginare il peggio che può capitargli: lui entra, e quelli chiedono: «Buon uomo, chi è lei?». No, il peggio non è questo. Se fosse questo, sarebbe niente. Il peggio è che tu gli spieghi chi sei, ma loro non ascoltano neanche, non gliene frega niente, e la mattina dopo ti rifanno la stessa domanda: «Chi è lei?».
Conosco una figlia che va a trovare la madre malata di Alzheimer, e la madre le chiede ogni mattina: «Chi sei?».
Adesso ho un amico con il padre malato di Alzheimer che ogni tanto protesta: «C’è una donna che viene a letto con me, chi è?». È la moglie.
Questo è l’Alzheimer, e non all’ultimo stadio. All’ultimo stadio non fa neanche più domande, tu (marito o figlio) sei in un mondo, il malato è in un altro mondo, separato. Abbiamo a lungo lottato, nelle nostre famiglie, contro una malattia che le devastava: il cancro. Entrava il cancro, occupava il corpo di un famigliare, e la vita dell’intera famiglia si spegneva. Lui moriva, e tutta la famiglia moriva con lui. Contro il cancro qualcosa abbiamo imparato a fare, lo facciamo regredire, o per lo meno lo fermiamo, o per lo meno lo rallentiamo. Adesso la nuova malattia che paralizza le nostre famiglie è l’Alzheimer. È in crescita. Ci occupiamo dei malati, ma non li guariamo. La medicina con la quale curiamo i malati incurabili, li imbocchiamo, li laviamo, li puliamo, gli cambiamo i panni, è l’amore. Non è la professionalità, non è l’espiazione di una condanna, non è l’autopubblicità politica: è solo e unicamente l’amore.
I parenti fanno molta attenzione a come i famigliari malati di Alzheimer sono curati negli istituti: sono rispettati? Se sono imboccati e sputano, vengono reimboccati? Nel film «Amour» di Michael Hanecke, Oscar come miglior film straniero del 2013, Trintignant ha una moglie-genio, grande musicista, a cui una malattia corrode il cervello, e lui la assiste-imbocca-accompagna per tutto il film, ma c’è un momento in cui lui la imbocca pazientemente col cucchiaio e lei vomita tutto, allora lui, di scatto, le dà una sberla in faccia. Attimi di costernazione sugli occhi di lei (forse), di lui, degli spettatori, poi lui bisbiglia, a testa bassa: «Perdonami». Non è qui l’«amour» del titolo, se fosse qui sarebbe un «amour» banale. È più avanti, alla fine: quando lui capisce che il cervello di lei è in progressivo disfacimento, lei peggiorerà sempre più, fino alla più vergognosa mancanza di controllo, sicché morire adesso sarebbe meglio, e allora la fa morire, ma (ecco l’«amour») muore con lei. Curare i malati che hanno bisogno di tutto e non sono in grado di chiedere niente (nessuno ha più bisogni dei malati che hanno perso il cervello) vuol dire mettere il tuo cervello al posto del loro, non dedurre ciò di cui hanno bisogno ma prevederlo. Questi malati sono gli «ultimi» della Terra, i nuovi poveri che mancano di tutto. L’incontro fra grandi medici-infermieri e grandi malati avviene ogni giorno nei nostri centri sanitari, ed è un incontro importante e arricchente soprattutto per il personale curante. Ma l’incontro di grandi politici con i malati incurabili non avviene mai, perché non ha nessun ritorno per i politici. Se poi è fatto per avere un ritorno in politica, è ancora peggio: i poveri malati di Alzheimer ne patiscono tante, dovrebbero patire anche questa.
Perciò, se io avessi un parente ricoverato nella struttura dove adesso andrà a lavorare il nostro ex-premier, e sapessi (come ogni parente sa) che il famigliare malato è curato con amore da un infermiere premuroso ma sconosciuto al mondo, andrei dal direttore della struttura a dirgli: «Il mio parente sta bene con l’assistente che ha. Questo non è nessuno, ma per lui è tutto. Il nuovo arrivato, che è tutto, lo dia a qualcun altro».