Stefano Vergine, L’Espresso 2/5/2014, 2 maggio 2014
DOVE OSANO GLI EMIRI
Nel nostro settore i risultati si vedono in venti, trenta, quarant’anni... Deve averla pensata così fin da subito James Hogan, entrato nel mondo del lavoro come assistente al check-in di una piccola compagnia aerea australiana e diventato, 40 anni dopo, l’amministratore delegato di uno dei maggiori vettori al mondo. Un’azienda, Etihad, che con lui ha decuplicato il numero di passeggeri in meno di un decennio. Il segreto? Comprare quote azionarie di società concorrenti. È per questo che Hogan ha imbarcato Etihad in una trattativa durata mesi nel tentativo di entrare in Alitalia. Un’operazione che - comunque vada - non metterà certamente fine alle mire espansionistiche della compagnia di proprietà degli emiri di Abu Dhabi. E che, per questo, ha scatenato la contraerea dei giganti europei. Trema Lufthansa, che rischia di vedersi soffiare quei passeggeri che oggi fanno scalo in Germania prima di imbarcarsi sui voli intercontinentali. E per lo stesso motivo non gradisce Air France, che in caso di fallimento di Alitalia - nel cui capitale è presente da tempo - potrebbe ambire a raccoglierne i cocci con poca spesa.
Ma dove vuole arrivare davvero l’azienda di Abu Dhabi? E come ha fatto a trasformarsi in così poco tempo in una delle più grandi compagnie al mondo? Meglio dirlo subito: la sicurezza di Hogan, 57enne australiano alla guida di Etihad dal 2006, è basata sui petrodollari, quelli derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti nascosti sotto le sabbie del piccolo regno. Gli Emirati Arabi Uniti, infatti, sono il settimo Paese al mondo per riserve petrolifere e il 94 per cento di questa ricchezza appartiene proprio a Khalifa Bin Zayed Al Nahayan, 65enne padrone assoluto di Abu Dhabi. Se i dati del Dipartimento americano dell’Energia sono corretti, c’è da credere che Etihad avrà carburante per finanziare la propria crescita ancora per parecchi anni. Non sembra dunque improvvisata la strategia di Hogan, decisamente diversa rispetto a quella della Emirates di Dubai e della Qatar Airways, le altre due corazzate del Golfo Persico. A differenza delle cugine, che pure hanno aumentato il numero di passeggeri negli ultimi anni, Etihad ha scelto una strada più audace. Invece di puntare sulle alleanze commerciali, ha fatto incetta di quote azionarie in giro per il globo, sostenendo che questa sia la strada «più facile, veloce ed economica». Teoria che non fa una piega, non fosse che per realizzarla ci vogliono parecchi quattrini. Dal 2011 ad oggi, escludendo Alitalia, l’emiro Al Nahayan ha fatto acquisti in sette Paesi del mondo, dall’Irlanda all’Australia, passando per Serbia, Germania, Svizzera, India e persino le isole Seychelles. Spesa totale? Un miliardo di euro, calcolano gli analisti. I risultati sono già significativi: il network della compagnia nel 2013 ha raggiunto i 95 milioni di passeggeri. E, con Alitalia, solo in Europa toccherebbe fin da subito quota 68 milioni, superando Iag (che raggruppa British Airways, Vueling e Iberia) e Easyjet (vedi a pagina 110). «Etihad è in una fase di shopping compulsivo», spiega Nadejda Popova, analista di Euromonitor International: «Entrando nel capitale di altre compagnie, seppur con quote di minoranza come imposto dalle leggi dei Paesi in cui ha fatto acquisti, può fare in modo che i flussi di passeggeri provenienti da altre nazioni siano "costretti" a passare per Abu Dhabi».
In effetti il traffico sullo scalo emiratino, anch’esso controllato dal governo locale, è aumentato parecchio. L’anno scorso sono transitati da lì 16,5 milioni di persone. Niente a che vedere con Dubai o Londra, in testa alle classifiche mondiali con oltre 70 milioni di passeggeri, ma c’è da scommettere che Abu Dhabi diventerà in tempi non troppo lunghi un punto di passaggio abituale per chi vola tra Oriente e Occidente.
In questa strategia va visto il tentativo di blitz su Alitalia. Etihad ha messo nel mirino una quota del 40 per cento, per cui si sarebbe detta inizialmente pronta a spendere circa mezzo miliardo di euro. Dopo mesi di negoziati sul taglio del personale e sulla riduzione dei debiti con le banche, la situazione si è complicata, proprio per le richieste stringenti avanzate dalla compagnia araba. La quale, tra l’altro, ha fatto sapere di voler puntare forte su Fiumicino, dove la presenza dell’ex compagnia di bandiera italiana è preponderante. Vuole trasformarlo in un ponte fra Abu Dhabi e le Americhe. Oltre a prendersi un quinto del mercato aereo italiano, fetta oggi appannaggio di Alitalia, l’operazione permetterebbe all’emiro di aumentare la propria presenza sui mercati d’Oltreoceano, dove attualmente Etihad copre solo cinque destinazioni tra Nord e Sud America. Lo scenario, che pone Fiumicino al centro dei traffici aerei, da una parte preoccupa gli scali lombardi, destinati ad un ruolo marginale, dall’altra ingolosisce la famiglia Benetton, socia di Alitalia e azionista di maggioranza di Adr, la società che controlla l’aeroporto romano.
Ecco perché nell’accordo per rilevare l’ex compagnia di bandiera tricolore c’è una condizione considerata indispensabile da Abu Dhabi: l’entrata in Adr, con una quota variabile dal 20 al 40 per cento, del fondo emiratino Adia. Un’operazione su cui i Benetton, che controllano Adr attraverso Atlantia, si sono detti d’accordo. L’ingresso di Abu Dhabi, ha fatto intendere nelle scorse settimane Giovanni Castellucci, numero uno di Atlantia, avverrebbe attraverso un aumento di capitale. Visto il valore attribuito ad Adr nella recente fusione fra Atlantia e Gemina, l’operazione potrebbe portare nelle casse della società aeroportuale tra i 600 milioni e il miliardo di euro.
Per comprendere le scelte di Etihad, spiega James Halstead, analista di Aviation Strategy, bisogna capire la strategia di sviluppo di Abu Dhabi: «La compagnia rappresenta un ingranaggio fondamentale per l’economia dell’emirato, che da qualche anno sta cercando di sviluppare la parte non legata al petrolio, in particolare turismo, trasporti e la logistica. Per fare questo», avverte però Halstead, «sta comprando società vicine al fallimento, proprio come fece Swissair». A partire dalla metà degli anni Novanta la compagnia di bandiera svizzera iniziò a fare acquisizioni un po’ ovunque. Tra le altre, finirono nella sua rete anche l’italiana Volare e la belga Sabena. Ma la campagna acquisti dissanguò le casse di Swissair, incapace di assorbire il calo del mercato seguito agli attentati dell’11 settembre e costretta a portare i libri in tribunale. Difficile immaginare conseguenze simili per Etihad, viste le ricchezze nascoste nel suo sottosuolo, ma le analogie con il caso svizzero non mancano.
Dei sette vettori acquistati finora da Abu Dhabi, solo due non hanno i bilanci in rosso: Aer Lingus e Air Seychelles. In cima alla lista delle perdite c’è Air Berlin, seconda linea tedesca dopo Lufthansa, in cui Hogan ha appena iniettato altri 300 milioni di liquidità: nel 2013 l’azienda ha lasciato sul terreno 315 milioni, cui si aggiungono i quasi 600 milioni persi dal 2008 a oggi. Una situazione molto simile a quella di Alitalia, che negli ultimi cinque anni ha totalizzato perdite per oltre un miliardo e nel 2013, secondo le stime, ne avrebbe persi altri 175 milioni. Per dirla con le parole di Michael O’Leary, il sanguigno amministratore delegato di Ryanair, Al Nahayan in questi anni «ha comprato un sacco di spazzatura». Chi glielo ha fatto fare? «Etihad», ragiona Halstead, «è la più giovane delle compagnie del Golfo e per recuperare su Emirates e Qatar Airways deve crescere a tassi maggiori. La logica è comprensibile, ma ciò non toglie che sia una strada rischiosa».
Di certo lo shopping ha permesso ad Etihad di ampliare la propria offerta di voli, arrivata a un totale di 400 destinazioni. Una potenza di fuoco che aumenterebbe ulteriormente con Alitalia. Non è casuale se la prima a schierarsi contro l’operazione sia stata Lufthansa, la regina dei cieli europei. Alle prime notizie di un possibile accordo, i tedeschi hanno fatto appello alla Commissione europea. L’accusa? «Aiuti di Stato». Bruxelles ha rispedito l’attacco al mittente, spiegando che le norme comunitarie riguardano solo i sussidi concessi dagli Stati membri. Ma la reazione di Lufthansa è sintomatica della posta in palio.
Se in Germania è il colosso di Francoforte a temere Etihad, l’ingresso in Italia dell’emiro di Abu Dhabi potrebbe creare problemi alle compagnie low cost e, di conseguenza, a chi si affida a loro per risparmiare sugli spostamenti aerei. Oggi Ryanair ed Easyjet (che pure hanno limitato le rudezze degli inizi, offrendo, ad esempio, i posti pre-assegnati) si spartiscono un terzo del mercato italiano. Non è dunque un caso che, tra le condizioni per sbarcare in Italia, Hogan avrebbe chiesto al governo misure per limitarle. Come? Una via potrebbe essere quella di aumentare le tariffe aeroportuali. Misura che si dovrebbe applicare ad ogni compagnia, non solo a Ryanair o Easyjet. Per quest’ultime qualche euro in più sul costo finale del biglietto potrebbe però diventare determinante, portando una fetta di clienti a scegliere i vettori tradizionali. L’altro metodo potrebbe essere quello di obbligare gli aeroporti a lanciare bandi d’asta pubblici per ogni nuova rotta sovvenzionata, pratica solitamente non utilizzata dagli scali periferici, dove le low cost hanno costruito la loro fortuna. Secondo Andrea Giuricin, docente di Economia dei Trasporti all’Università Bicocca di Milano, non sarà facile soddisfare la richiesta: «Agire sulle tariffe è complicato, visto che adesso esiste un’Autorità dei trasporti e non è più il governo a decidere. Fare gare pubbliche per le rotte sovvenzionate è invece sacrosanto ma, ormai, il business delle low cost è cambiato: anche loro si stanno spostando verso gli aeroporti principali, quindi la misura non avrebbe un grande effetto».
Resta da capire una cosa: Etihad finora ha beneficiato di tutti questi acquisti? In assenza di un bilancio depositato bisogna affidarsi alle dichiarazioni della società. Che ha recentemente annunciato dati invidiabili. Nel 2013 i ricavi hanno raggiunto 6,1 miliardi di dollari, in aumento del 27 per cento sul 2012. Ancora meglio gli utili, cresciuti del 48 per cento a 62 milioni di dollari. Peccato che non siano stati resi noti né i debiti né il contributo delle varie partecipate. Ma per intuire, basta l’outing di Hogan: i risultati si giudicano in almeno vent’anni.