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 2014  maggio 02 Venerdì calendario

CHI LAVORA NON TORNA IN CARCERE [+ 3

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I rifiuti erano l’oro della camorra, adesso sono il tesoro dei detenuti del carcere napoletano di Secondigliano. Ogni mattina trenta reclusi selezionano le bottiglie di plastica, di vetro e le lattine di alluminio raccolte all’interno del penitenziario e in alcuni quartieri della città. Nelle stesse ore anche dietro i cancelli di Rebibbia avviene l’identica scena. Frammenti di vita quotidiana tra condannati, alcuni con sulle spalle la sentenza "fine pena mai", che così ottengono dignità e un’occasione di riscossa. Lavorare dovrebbe essere un loro diritto, non l’eccezione: la strada maestra di quella rieducazione che per la Costituzione resta lo scopo della prigione. Una missione ignorata: a sei mesi dal suo discorso al Parlamento, Giorgio Napolitano è tornato a chiedere misure urgenti per migliorare le condizioni dei reclusi. E la sentenza della Corte Europea che ha condannato il nostro sistema carcerario impone di dare risposte entro poche settimane (vedi box a pag. 41). Offrire un impiego ai detenuti in un paese alle prese con una disoccupazione spietata può apparire come un’utopia, in realtà si tratta di una prospettiva sempre più apprezzata. Anche perché è l’unica che porta quasi sempre a un reale reinserimento quando si esce dalle mura dei penitenziari.
Più lavoro meno reati
Otto volte su dieci chi ha lavorato durante la detenzione non commette più crimini dopo la scarcerazione. Un risultato doppiamente positivo: quelli che non hanno questa opportunità, nell’80 per cento dei casi ricominciano a vivere di reati. Insomma, è la soluzione ideale. Ma per pochi. «Solo il 5 per cento lavora», spiega a "l’Espresso" Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, «purtroppo il livello è ancora molto basso ma puntiamo a raddoppiarlo per il prossimo anno. Contiamo di creare duemila nuovi posti aumentando le assunzioni da parte delle cooperative sociali e delle aziende private e grazie alle convenzioni con gli enti locali per i lavori di pubblica utilità. Infine, potremo garantirne altri con gli impieghi per la manutenzione all’interno degli istituti di pena». Le statistiche sono spietate. Nelle carceri vivono 61.449 persone, ma soltanto 14 mila hanno una qualche occupazione. Di questi, solo un quinto ha un vero contratto con aziende o cooperative: più di novemila si occupano delle attività interne ossia fanno i portantini, i magazzinieri, i cuochi. Dieci anni fa la situazione era di gran lunga peggiore: i reclusi con un impiego retribuito erano 644. A farli quadruplicare è stata una legge speciale, "la Smuraglia", che concede sgravi fiscali e contributivi agli imprenditori che li ingaggiano. Nel 2013 è stata un’opportunità colta da 150 tra aziende e coop, che hanno assunto 1280 detenuti. Si sono creati posti in tutti i settori: dall’agricoltura al tessile, dalla ristorazione all’informatica. Una ditta metalmeccanica di Bologna ha selezionato nell’istituto cittadino ben 16 part time.
Eppur si muove
Il fondo per incentivare i contratti negli ultimi due anni ha avuto a disposizione 20 milioni, calati a cinque nel 2014. Briciole, rispetto alla massa di persone costrette all’inattività nelle celle, che restano comunque una risorsa importante in una stagione di tagli feroci. Altre iniziative sono in cantiere. Rita Ghedini del Pd ha appena presentato un disegno di legge che aumenta i vantaggi per chi assume i detenuti, con una previsione di spesa di quattro milioni annui. È già operativo invece il protocollo firmato tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Legacoopsociali e Confcooperative. «L’accordo ha permesso di avviare nuove esperienze», spiega Giuseppe Guarini portavoce dell’Alleanza Cooperative Sociali e presidente di Federsolidarietà (Confcooperative). «E di dettare delle linee guida per diffondere le buone pratiche di alcuni istituti», continua. Guarini è al vertice di una rete di 150 cooperative, presenti nella metà delle carceri del Paese, che hanno dato occupazione a 1.500 detenuti. Del network fa parte "Libera Mensa", che ne impiega più di trenta: sotto la guida di cuochi professionisti, preparano piatti con prodotti del territorio e organizzano catering in matrimoni, congressi, riunioni di affari e cene private. Tutto rigorosamente "fatto in casa", nel carcere della Vallette di Torino. Dà lavoro anche agli stranieri reclusi, molti dei quali però non hanno il permesso di soggiorno. «Ed è un problema», denuncia Piero Parente responsabile della cooperativa, «perché due nostri ottimi collaboratori, uno marocchino e uno albanese, esaurita la pena hanno dovuto lasciare il Paese». Dal Piemonte alla Sicilia, passando per Umbria e Lazio proliferano esperienze di questo genere con nomi ispirati ironicamente al desiderio di fuga: una libertà però ottenuta con il sudore della fronte e non con rocambolesche evasioni. A Ragusa la neonata "Sprigioniamo sapori" occupa tre detenuti. Producono dolci di mandorla e torroni tipici dell’isola che vendono in tutta Italia, e a breve partirà anche nel femminile di Catania. A Terni impastano pane e biscotti con il "Forno solidale". A Perugia la cooperativa Gulliver coltiva frutta e verdura nel "Podere capanne". E poi c’è la produzione di caffè a Pozzuoli, quella della birra artigianale a Saluzzo, le biciclette "Apiedelibero" montate a Firenze Sollicciano. «È ancora uno sviluppo disomogeneo, in alcune carceri è complicato portare a termine i progetti, altri invece sono ben disposti. Per colmare questo gap è necessario avere delle regole comuni da seguire», osserva il presidente di Federsolidarietà. Ma bastano le "imprese sociali"? C’è chi le ritiene la migliore soluzione. Altri invece credono che per raggiungere numeri significativi serve l’appoggio dei colossi dell’economia nazionale, che con il loro turnover possono garantire la continuità delle mansioni anche dopo la fine della pena.
Obiettivo Società per azioni
«Al momento mancano contatti con grandi aziende, più volte abbiamo tentato di portare dentro il carcere le catene di montaggio», racconta Tamburino, «ma dall’altra parte non c’è mai stata una risposta positiva. In prospettiva posso dire che i nostri sforzi andranno in questa direzione. Per ora in Italia nessuno vuole delocalizzare in carcere. A differenza di quanto avviene in Germania dove a Stoccarda la Mercedes impiega detenuti all’interno degli istituti». Un tentativo è stato portato avanti con Fiat per la produzione di tergicristalli, ma il progetto si è arenato perché andrebbe modificata la normativa. Eni invece vuole investire nella formazione dei reclusi per poi assumerli una volta scontata la sentenza. Lo ha fatto con Giuseppe, ex trafficante internazionale di droga, e ha intenzione di proseguire nel progetto. «Dovremmo diffondere queste esperienze anche al dì fuori delle imprese sociali», osserva Giuseppe D’Agostino funzionario del Garante dei detenuti del Lazio. «Solo così sarà possibile crescere. Non sono molte le grandi aziende che conoscono i benefici della Smuraglia. La soluzione è informare di più e meglio rispetto all’utilizzo di questi fondi».
Pronto? Qui Rebibbia
E quelle poche che hanno scelto di investire, con la crisi e le ristrutturazioni hanno tagliato. Come Telecom. Da dicembre, dopo 7 anni, ha chiuso il call center a Rebibbia lasciando in cella ventiquattro operatori che prima rispondevano alle chiamate del 1254. Ma il merito è stato premiato: visto l’ottimo lavoro svolto, sei della squadra sono stati ricollocati e ora si occupano delle prenotazioni dell’ospedale Bambin Gesù. «Hanno risultati migliori, sono motivati dalla voglia di dimostrare a familiari e società che possono recuperare», sottolinea D’Agostino. Nella casa circondariale di Civitavecchia c’è un altro esempio virtuoso. Da pochi mesi è attiva una falegnameria. Cinque fabbri assunti dal consorzio Solco - lo stesso dei call center di Rebibbia - si preparano a realizzare porte, laminati, mobili, per committenti esterni. Puntano in alto, e stanno tentando di proporre a Ikea una collaborazione. «La legge Smuraglia è per noi vitale, ci permette di abbattere della metà il costo del lavoro e di avviare così progetti altrimenti impensabili», racconta Mario Monge, presidente di Solco che riunisce 37 imprese sociali. Tra queste c’è la New Horizons, nata alla fine degli anni 80 come officina meccanica dall’esperienza maturata all’Asinara da un detenuto. Oggi è specializzata nella raccolta dei vestiti usati. Da sei anni si è trasferita nel quartier generale del cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti confiscato dallo Stato. Quello che era il luogo per antonomasia del romanzo criminale è diventato uno spazio dove ex detenuti e disabili costruiscono il loro futuro. Confrontarsi con la pubblica amministrazione spesso però significa essere pagati dopo un anno o in tempi ancora più lunghi. Lo sa bene la coop 29 giugno, che dall’alto dell’ultimo fatturato di 60 milioni, vanta crediti per 20: una condanna a morte per le imprese sociali. Anche la cooperativa Terre di Mezzo opera con per gli enti locali: impiega otto carcerati nella falegnameria delle Vallette e dà una seconda chance ai reclusi dell’istituto minorile di Cagliari. Tra i loro dipendenti c’è un ex trafficante di droga arrestato come socio del calciatore Michele Padovano, considerato un fenomeno nel suo nuovo mestiere di ebanista.
Il lavoro porta risparmio
C’è uno squadrone di 750 detenuti che fa risparmiare allo Stato oltre mezzo miliardodi euro. Si occupa della piccola manutenzione degli istituti e rispetto a operai esterni, che costano al mese 1500 euro al mese, la loro busta paga è la metà. Questa manodopera low cost è richiesta dai Comuni, che affidano a semiliberi (vedi box qui sopra) la cura del verde, la raccolta dei rifiuti, il portierato e la manutenzione delle strade. A Palermo la giunta ha firmato il mese scorso un accordo con il ministero per inserire i reclusi in percorsi di occupazione. E nei laboratori tessili femminili c’è grande fermento. Il successo di alcune iniziative - come Made in Jail a Rebibbia, Extraliberi alle Vallette e O’ Press a Marassi - ha spinto a creare anche un certificato etico per abiti e gadget prodotti dalle donne recluse: il marchio "Sigillo". Gatti Galeotti, Filodritto, Ora d’aria, Impronte di libertà: sono alcune delle coop nate tra San Vittore, Bollate, Enna, Como, Torino, Vigevano, Venezia. E stanno per partire nuove sartorie a Santa Maria Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Catania, Genova e Monza. Un settore in espansione, sul quale il ministero punta molto per far crescere l’occupazione nelle sezioni femminili, ancora a livelli molto bassi. Per due motivi: «I direttori delle carceri ci segnalano principalmente uomini», spiega Carlo Guaranì, vicepresidente della cooperativa 29 giugno, «e poi ci sono lavori manuali, faticosi, che sono considerati più adatti agli uomini». Solimene è una delle fortunate. All’alba di ogni mattina lascia Rebibbia per andare in uno dei mercati rionali della periferia romana. Ripulisce la zona dagli scarti di frutta e verdura: quelli che per altri sono rifiuti, per lei sono il futuro.


ORLANDO ALLA CARICA –

Non è solo questione di metri. L’Europa ci ha condannato perché le prigioni sono troppo affollate ed entro il 27 maggio l’Italia dovrà presentare le sue risposte alla Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo. Ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando vuole presentare un piano di interventi molto più ampio: «che non si limitino alla dimensione minima dello spazio vitale, ciò che chiede Strasburgo, ma che garantiscano il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena», è quanto trapela dal dicastero di via Arenula.
Nell’ottica del ministro, va ripensata l’idea del carcere come unica pena possibile, in modo da ridurre il numero delle persone che entrano in cella: si punta alla depenalizzazione dei reati di minore allarme sociale e alla modifica delle punizioni sugli stupefacenti. Altro aspetto chiave è il ricorso sempre più frequente agli arresti domiciliari e il miglioramento della procedura dell’affidamento ai servizi sociali: l’idea è quella di sfruttare meglio la "messa in prova", già collaudata con successo per i minori, che può partire anche prima della sentenza definitiva.
La macchina penitenziaria ha già raccolto qualche risultato: dal 2009 a marzo 2013 i detenuti in attesa giudizio di primo grado sono scesi da oltre 21 mila a poco più di 10 mila È cresciuto invece il numero di reclusi ammessi a misure alternative (dai 12 mila del 2009 ai 29 mila del 2013). I segnali sono buoni. Ma non bastano. Orlando ha in mente una strategia di largo respiro, per coinvolgere enti locali, scuole e imprese verso la definizione di un nuovo modello di reclusione. Case famiglia per donne madri; protocolli con le Regioni per accogliere i tossicodipendenti in strutture ad hoc; accordi con le aziende per offrire maggiori opportunità di lavoro, l’inserimento in attività scolastiche e culturali.
Questo unito alle misure classiche dello "svuota carceri": l’apertura di nuovi istituti e la chiusura di quelli minori, che hanno costi di gestione più alti, e soprattutto rendere efficaci gli accordi per far scontare in patria la pena ai detenuti stranieri. Un provvedimento fondamentale che finora ha trovato scarsa applicazione ma su cui Orlando promette novità.


DALL’EROINA ALLA PAUSA CAFÉ –

Sergio Chiamparino, l’ex sindaco di Torino e candidato al vertice della regione Piemonte, lo saluta così: «Ciao, delinquente!». Ma Moutya M’barek, tunisino, è un miracolo di redenzione sociale. Una sfilza di condanne per spaccio, per il magistrato di sorveglianza era un fascicolo da archiviare negli irrecuperabili. «Avevo 16 reati consecutivi da smaltire e già nove anni di pena: il mio problema non era entrare, ma uscire dal carcere. La prima sera, fuori, senza soldi, lavoro e casa, ricominciavo a fare quello che sapevo, vendere eroina e cocaina». Poi ha incontrato Luciano Cambellotti e Marco Ferrero, i padri della coop Pausa Cafè, che gli hanno offerto un contratto a tempo indeterminato: in carcere risparmia, lo stipendio si può mettere da parte quasi per intero e, scontata la pena, l’ex spacciatore inizia a costruirsi una vita. Così è diventato
il primo dipendente "fuori" dell’azienda, specialista in torrefazione. Oggi è pizzaiolo nell’Eataly di Pinerolo e addirittura socio di Pausa Café.
Una coop nata dall’idea di Marco Ferrero, ex cooperante in Guatemala che si è inventato il progetto del caffè Huehuetenango, per decenni comprato a prezzi stracciati da affaristi e multinazionali. La cooperativa trova sponda in Slow Food, crea un presidio internazionale a tutela dei contadini, e in Italia amplia il suo respiro sociale abbracciando i carcerati. Il caffè arriva dall’America ancora verde e viene tostato a legna nel laboratorio del Lorusso e Cotugno di Torino, anche per conto dell’impero food di Farinetti, Eataly. Ma Pausa Cafè vanta un altro unicum mondiale: un birrificio artigianale nella casa di reclusione di Saluzzo. Un mastro birraio che aveva chiuso la sua attività ora insegna il mestiere, tra tini e fermentatori, a chi ha rapinato e ucciso. Ad Alessandria, la cooperativa ha inaugurato nel 2013 un panificio in cui cinque condannati sfornano dieci tonnellate al mese di pagnotte (anzi, di "Pane libero") per più di venti ipermercati del nordovest, grazie a contributi pubblici e privati. «Ma non siamo dei sovvenzionati», spiega Ferrero: «Abbiamo più di 30 dipendenti, la metà proviene dal carcere. Per sostenerci, certo, abbiamo cercato risorse da fondazioni e associazioni: dal 2006 si è raccolto un milione di euro, tutti investiti in impianti e attrezzature. Così, invece di fare beneficenza, abbiamo generato un volume ben superiore poi restituito in salari, imposte e contributi. Recuperando persone, creiamo anche un bene sociale indiviso: la sicurezza. Credo sia un valore superiore a quelli organolettici del caffè e della birra».
Federico Ferrero

GIARDINIERI, CUOCHI E ATTORI –

Khaled Ibrahim Mahmoud ha già scontato 27 anni per l’assalto terroristico palestinese del 1985 a Fiumicino, in cui morirono 13 persone. A Rebibbia grazie ai compagni di cella ha conosciuto la cooperativa 29 Giugno che da trent’anni dà lavoro ai detenuti
e a chi ha saldato i conti con la giustizia. La coop riceve appalti dalle università e da tutti gli enti locali. Gli operai come Khaled si occupano principalmente di cura del verde e decoro urbano: lui in particolare ogni giorno si dedica ai cespugli di Villa Borghese. Sono tutti assunti con contratti a tempo indeterminato e insegnano ai più giovani il mestiere. Francesco Carusone per esempio è considerato uno dei "dipendenti modello". Cinquantanove anni, dal ’94 dietro le sbarre e da qualche anno capo squadra del gruppo di giardinieri che curano le aiuole e puliscono i marciapiedi dell’Eur. Una nuova vita, da malavitoso legato ai boss a giardiniere e attore: ha interpretato la parte dell’indovino nel film dei fratelli Taviani "Cesare deve morire" girato all’interno di Rebibbia. Anche Pino Pelosi, condannato per l’omicidio di Pierpaolo Pasolini, è nella stessa squadra. Così come Cosimo Rega, che nelle ore di semilibertà fa il portiere dell’università di Roma Tre ed è stato pure lui tra gli attori reclutati dai Taviani nell’opera che ha vinto l’Orso d’oro. Cosimo ha un passato nella camorra salernitana, per il quale sconta l’ergastolo. «Entravo e uscivo dal carcere», racconta a "l’Espresso", «senza mai lavorare, poi quando mi è arrivata la sentenza di "fine pena mai" ho iniziato a fare piccoli lavoretti interni alle dipendenze dell’amministrazione con salari molto bassi. Mi sono appassionato al teatro, alla lettura. La cultura, che da camorrista disprezzavo, mi ha salvato. Ma la mia vita
è cambiata con l’assunzione. Ora ho uno stipendio dignitoso di mille euro, godo di diritti, insomma, mi sento un cittadino. Tutte cose che da malavitoso
consideravo ripugnanti».
Aspetta di entrare nella grande famiglia della 29 giugno Salvatore Di Maio, un altro ex affiliato ai clan: un cutoliano di ferro che in galera si è specializzato, diplomandosi, come cuoco. Per ora lavora all’ospedale San Filippo Neri pagato tre euro l’ora dall’amministrazione penitenziaria. Ma vorrebbe seguire il suo amico Carusone nella 29 giugno. Dove tra i più esperti florovivaisti c’è Marino Alfonsi, vero leader del gruppo e con più esperienza. Per 38 anni ha vissuto tra la strada e la galera. Ora cura il verde per un appalto vinto con la Provincia di Roma. Così come Francesco Melara, calabrese e condannato per un omicidio commesso quindici anni fa. Da cinque è operaio assieme a Pino, Cosimo, Francesco, Khaled e Marino, che possono credere in una nuova vita.
G. Tiz.