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 2014  aprile 30 Mercoledì calendario

DISMORFOFOBIA


Heather ha 39 anni, e vive a Fall River, un piccolo centro del Massachusetts. Alla fine di ogni frase, dice «yeah». Che è il suo modo di mettere un punto ai pensieri, ma anche un indizio della sua insicurezza. L’unico che saprei cogliere se non sapessi che Heather soffre di dismorfofobia fin da ragazzina. «Un giorno andai a vedere una partita di baseball. Avevo la sensazione che tutti gli spettatori fissassero la mia faccia», racconta. Oggi, ammette che un pensiero del genere non aveva nessun senso. «La gente era troppo intenta a seguire la partita per guardare me».
La dismorfofobia è un parente del disturbo ossessivo compulsivo. Ti vedi deforme anche se non lo sei. Anche se sei bello: come Laura Chiatti che ha da poco confessato di soffrirne. «Ma è impossibile spiegare davvero che cosa si prova», dice Heather, «devi viverlo».
Paura di essere brutti
Ci prova katharine a Phillips: «Chi soffre di dismorfofobia pensa: “Se qualcuno mi guarda è perché sono brutto, se non mi guarda è perché sono brutto, se mi guarda e poi si volta è perché sono brutto”».
È una psichiatra, insegna alla Brown University del Rhode Island, e si occupa di questo disturbo da circa 25 anni. All’inizio degli anni Novanta, dice, c’erano pochissimi studi e nessun tipo di terapia.
Il suo primo paziente era un giovane uomo. «Era depresso. A lungo evitò di spiegarmi che cosa lo facesse stare così male finché un giorno mi disse: “Vuole sapere la vera ragione per cui sono qui? È per i miei capelli”».
Spiega che a colpirla fu la combinazione tra il livello di sofferenza che provano le persone con questo disturbo e la difficoltà di ammettere che «a ossessionarli è qualcosa che gli altri non solo negano di vedere ma che ritengono sciocco: hanno paura di sentirsi dire che sono vanitosi».
Mi cita altri casi: «Una donna era convinta che la sua faccia fosse devastata dall’acne, in realtà aveva una pelle perfetta. Una ragazza, poco più che ventenne, aveva già subìto venticinque interventi di chirurgia plastica e minacciava di uccidersi se i medici le avessero negato un’altra operazione». Ricorda un paziente convinto di avere un fisico esile ai limiti del ridicolo: «Aveva trascorso così tanto tempo a sollevare pesi che a trent’anni si era ridotto su una sedia a rotelle. Queste persone si vedono deformi e fanno fatica ad accettare che il loro problema non è fisico ma psicologico».
Oggi si è stabilito che di questo disturbo soffre circa il 2 per cento delle persone – venti su mille, «più dell’anoressia». Di queste, il 25 per cento – cinque su mille – ha tentato di uccidersi almeno una volta.
Cattivi pensieri
«A 19 anni passavo le giornate sdraiata sul divano, non volevo vedere nessuno», mi dice Heather. «I miei genitori non mi lasciavano mai sola perché temevano che potessi farmi del male. Un giorno, per caso, vidi in Tv una trasmissione dove si parlava di dismorfofobia. Soltanto sapere che c’era un nome per quello che provavo fu un enorme sollievo».
Quello che vedo io è una giovane donna con i capelli rossi, gli occhi verdi e una spruzzata di lentiggini. Per lei quelle macchioline sulla pelle sono un’ossessione. «E i brufoli», dice. Le chiedo se è consapevole di non averne. «Se guarda bene, ne ho uno piccolo qui», ribatte indicandomi un punto sul viso. Da anni Heather è in cura: farmaci e psicoterapia. Per un po’ di tempo ha tenuto a portata di mano un biglietto con sopra scritto: «Non guardarti allo specchio per più di 5 minuti», e un tubo di gomma per tenere le mani occupate ogni volta che le veniva voglia di strizzare un brufolo inesistente fino a massacrarsi la faccia. «Ci sono ancora giorni in cui mi sveglio e penso di avere un aspetto da far inorridire, ma in confronto a prima sto meglio. I farmaci mi aiutano a tenere sotto controllo i pensieri ossessivi, la terapia psicologica serve a capire quali sono i pensieri sbagliati».
Basta specchiarsi
Colpa dei geni, della famiglia, dei bulli che ti hanno preso di mira a scuola. Le cause del disturbo non sono chiare. «Probabilmente un mix di più fattori», dice la dottoressa Phillips.
Doug, però, ha una sua teoria: «Sono cresciuto con un padre che mi maltrattava e una madre iperprotettiva. Da bambino ero timido, insicuro. Alle superiori non ho mai avuto una ragazza, non mi sentivo per niente all’altezza». Anni dopo, durante una crociera alle Bahamas, Doug incontra quella che sarebbe diventata sua moglie. «Le dissi subito che non volevo figli, non avevo abbastanza fiducia in me stesso per diventare padre. Ma lei dopo un po’ cominciò a tormentarmi: “Voglio un bambino”, insisteva». Secondo Doug lo stress di quella relazione in crisi avrebbe fatto esplodere la malattia. «A un certo punto la mia faccia cominciò a ossessionarmi. Mi specchiavo ovunque, mi vedevo orribile, mi sentivo al sicuro solo di notte per via del buio».
Oggi Doug ha 59 anni, e da 20 non si guarda allo specchio. Sua moglie se n’è andata da tempo, lui vive con la madre, e lavora al tribunale di Boston, «in un piccolo ufficio dove, per fortuna, non vedo quasi mai nessuno». Il Prozac, dice, è l’unica cosa che lo fa stare meglio. Ma sa che se dovesse cedere alla tentazione di specchiarsi di nuovo sarebbe preso dal panico. Per evitarlo, ha messo a punto una sua routine: «Mi faccio la barba nella penombra, così posso vedere solo il profilo del mio volto e socchiudo gli occhi quando mi vesto per non guardare il mio corpo. Come mi ha detto il medico: “Quello che non sai non ti può fare del male”».