Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano 30/4/2014, 30 aprile 2014
LA RIVINCITA DI RENZI E LA DISERZIONE DEI POTERI FORTI
C’è grossa crisi, come diceva il profeta di Quelo. Il 23 febbraio scorso l’economista di Forza Italia Renato Brunetta ha fulminato il nascente governo di Matteo Renzi: “È imposto dai poteri forti e si chiamano banche”. Due mesi dopo l’Abi, associazione dei poteri forti che si chiamano banche, minaccia di fare causa al governo per la pillola da 2 miliardi di tasse che gli ha rifilato per far tornare i conti dei famosi 80 euro. C’è disorientamento. Enrico Cuccia è morto, Gianni Agnelli è morto e il presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, “banchiere di sistema” per eccellenza, è costretto a sfidare l’imprenditore Diego Della Valle su una pista di sci per mostrargli la tonicità dei suoi 81 anni.
Dopo esserci baloccati per anni con l’idea che l’onda anomala dell’antipolitica preparasse il trionfo della società civile, scopriamo che nell’Italia di Matteo Renzi, per la prima volta dalla fine del fascismo, il potere politico non ha una borghesia industriale che lo fronteggi. Sul Corriere della Sera Giuseppe De Rita lamenta che anche la recente tornata di nomine al vertice di aziende pubbliche del calibro di Eni, Enel e Poste si è consumata nell’assenza, e comunque nella “carenza di cultura”, della “classe manageriale italiana”.
“NESSUNO SI PREOCCUPA PIÙ DELLE SORTI DEL PAESE”
Uno dei più importanti ed esperti avvocati d’affari milanesi allarga le braccia: “Qui non c’è più nessuno che si preoccupi delle sorti del Paese. I Pirelli, i Pesenti, i Marzotto... Dissolti. Ogni famiglia ricca si occupa solo degli affari suoi, e tutti sono contenti di Renzi perché hanno capito che non romperà troppo le scatole. Per loro è il compromesso ideale tra il berlusconismo e la sinistra: gli imprenditori non si aspettano più niente dalla politica, sono contenti di un governo che non faccia danni ai loro interessi. E comunque avvertono: andateci piano a rimpiangere l’Avvocato, anche lui pensava molto agli affari suoi, sennò non ci saremmo ridotti così”. Usciamo da un’epoca in cui l’oligarchia detta classe dirigente dava la rotta alla politica, anche se non sempre con successo e con l’interesse generale in mente. Un testimone privilegiato degli incroci tra politica e affari come Luigi Bisignani racconta che nell’estate del 1992 il boss di Mediobanca, Enrico Cuccia, riunì nel suo ufficio la crema del capitalismo italiano per fare fronte comune contro l’inchiesta Mani Pulite. C’erano Agnelli, Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti e Giampiero Pesenti. Oggi a una riunione così non si saprebbe chi invitare. Intorno a Renzi c’è il deserto dei poteri forti italiani, mentre quelli stranieri premono alle frontiere mirando agli ultimi gioielli dell’industria italiana. Un manager pluridecorato e provvisoriamente fermo ai box ricorda l’origine della storia: “Proprio nel ‘92 Cuccia mi confidò il suo progetto di dare alle grandi famiglie del capitalismo italiano delle rendite sicure, come fanno gli imprenditori ricchi con i figli scemi. Tentò di dare la Telecom alla Pirelli e agli Agnelli, fece consegnare ai Benetton le Autostrade. Ormai delle grandi famiglie non c’è più niente. Hanno liquidato molte attività, magari vivono a New York o a Montecarlo, hanno investito in finanza e immobili, quasi sempre all’estero. Quel che è peggio è che non c’è più nessuno dotato di una visione”. La differenza tra ieri e oggi è lampante in una battuta polemica dell’allora presidente di An, Gianfranco Fini, datata 1997: “Una politica per la famiglia il governo Prodi ce l’ha, è che si tratta della famiglia Agnelli”. La seconda repubblica è stata dominata dallo scambio di accuse tra i politici sull’acquiescenza a poteri forti riconoscibili, con nome e cognome: Agnelli, De Benedetti, Cuccia, Berlusconi. Oggi i poteri forti sono fantasmi misteriosi e indefiniti, la grande finanza internazionale, il Gruppo Bilderberg, le banche. Durante il primo governo Prodi (1996-1998), in due anni e mezzo ci sono stati almeno sette incontri ufficiali tra il premier e l’avvocato Agnelli, che era senatore a vita e votava regolarmente la fiducia ai governi dell’Ulivo, come prima l’aveva votata a Berlusconi. Il successore di Prodi, Massimo D’Alema, non solo dialogava regolarmente con Agnelli, ma addirittura uscì a piedi da Palazzo Chigi per incontrare Cuccia in casa del comune amico Alfio Marchini. Il vecchio banchiere ebbe due faccia a faccia con il primo (e ultimo) premier ex comunista, il primo durante la scalata di Roberto Colaninno alla Telecom (di cui Mediobanca era regista) e il secondo in occasione della fusione tra Assicurazioni Generali e Ina. Il confronto tra governo e potere politico era serrato e costante, con la politica sempre leggermente genuflessa.
La partecipazione di grandi banchieri come Bazoli, Corrado Passera e Alessandro Profumo alle primarie del 2005 fu considerata un punto di forza per il ritorno di Prodi a Palazzo Chigi. Gli anni della grande crisi economica hanno lasciato in mutande i re dell’economia. Tecnici sussiegosi come Mario Monti e Corrado Passera, che per anni avevano guardato dall’alto in basso la politica, rilasciando tutt’al più salvacondotti privati per le ambizioni di questo o quel leader, hanno giocato la carta del partito personale. Un imprenditore importante come Alberto Bombassei (freni Brembo) si è fatto eleggere alla Camera. Lo stesso Profumo, prima di andare a presiedere il Monte dei Paschi di Siena, aveva selezionato un potente del calibro di Rosy Bindi per dare ampia disponibilità a incarichi romani. L’ex presidente della Fiat Luca di Montezemolo ha tenuto per anni in ansia il Paese minacciando la discesa in campo. Ma se nel 1976 Umberto Agnelli entrò in Parlamento per rappresentare la grande borghesia italiana, e se Gianni suo fratello nel 1991 fu nominato senatore a vita da Francesco Cossiga per lo stesso motivo, le ambizioni politiche dei loro tardi epigoni sopra ricordati appaiono invece storie personali di limitato interesse generale.
IL PRIMO A PRENDERE IL POTERE SENZA IL PERMESSO DELLA FIAT
L’Italia di Renzi è un posto dove i lobbisti non sanno con chi parlare a Roma “perché tanto decide tutto lui”. Ma anche il capo del governo, se volesse incontrare il capitalismo italiano, non saprebbe a chi telefonare. Ha liquidato il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi come insignificante e si rivolge direttamente (via satellite) alle masse di piccoli e medi imprenditori disperati, mentre i protagonisti dell’economia che frequenta sono solo suoi vecchi amici. Oppure – il mondo si è davvero capovolto – imprenditori che lo assillano in cerca di patenti renziane.
Il leggendario scambio di complimenti tra Renzi e Sergio Marchionne (“Firenze città piccola e povera”, “Si sciacqui la bocca prima di parlare, noi abbiamo fatto il Rinascimento, lui la Duna”) risale a diciotto mesi fa: il potente manager lo definì inadatto a governare l’Italia e il sindaco di Firenze ha preso il potere senza il permesso della Fiat. La politica sta come sta, ma il capitalismo italiano sta messo proprio male.
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Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano 30/4/2014