Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 30 Mercoledì calendario

LISBONA HA FATTO TUTTI I COMPITI


da Lisbona
Ornati da tempo del titolo di «latini tristi», i portoghesi si accostano alle urne europee con educata malinconia, con un bagaglio di delusioni, uno scarno germoglio di speranza e un deserto di gratitudine. Presentano i loro cahiers des doléances con meno veemenza di altri popoli del Sud Europa, come loro flagellati da recessione e austerity.
Sono più disciplinati, abituati alle ristrettezze già da prima che Antonio Salazar, dittatore per mezzo secolo, proclamasse di volerli «poveri e virtuosi». Erano stati meno poveri, al volgere del secolo e del millennio, anche con i soldi forniti dall’Europa, quando era generosa.
Per questo hanno sopportato, con uno stoicismo che è soprattutto pazienza, i sacrifici che i Poteri, comunitari e no, gli hanno imposto negli ultimi anni come condizione per i «salvataggi»: aumento di tasse e tagli ai salari e agli stipendi, calo delle pensioni in un paese in cui queste in media non arrivano ai 400 euro il mese, un giovane su tre senza lavoro, una disoccupazione globale che ha sfiorato il 20%. Il primo ministro Pedro Passos Coelho aveva lealmente preannunciato: «I prossimi due anni saranno spaventosi per il Portogallo, ma non ci sono alternative».
E ha mantenuto la promessa. Lisbona ha imboccato con più coraggio di altre capitali la strada delle privatizzazioni e del rimpicciolimento dello stato. Ha venduto di tutto, dalla gestione degli aeroporti a quella delle poste, delle autostrade. Ha abbordato perfino la cessione di monumenti dell’eredità culturale della nazione, a cominciare da una preziosa collezione di quadri di Joan Mirò. Ora aspetta una ricompensa che vada oltre il riconoscimento di avere «fatto i compiti» abbastanza per una promozione condizionata al termine dell’ultimo triennio: per esempio, una «rete di sicurezza». Non è detto che la ottenga, anche se ha fatto progressi sorprendenti, soprattutto nelle esportazioni. Di merci ma non soltanto: anche di uomini. Riscoprendo l’emigrazione e le rotte della Conquista, dell’epopea marittima che fece del piccolo Portogallo, per un paio di secoli, una potenza mondiale, il primo impero coloniale europeo. Enrico il Navigatore permise all’Occidente di riscoprire l’Asia, aggirando il muro islamico e circumnavigando l’Africa, imponendo la sua cultura a terre lontane come l’India, colonizzando metà dell’America Latina. Anche quella fu una globalizzazione.
Oggi centinaia di migliaia di giovani portoghesi ripercorrono da emigranti le terre in cui gli antenati si erano insediati da padroni al termine di viaggi avventurosi, pieni di disagi e pericoli. Avevano affrontato le incognite del contatto con culture ignote e spesso aliene e avevano conosciuto la nostalgia, generatrice di quel sentimento così tipicamente lusitano dal nome quasi intraducibile che nasce dalla solitudine. «Saudade», l’anima del Fado. Poi venne una decadenza destinata a durare secoli, aggravata da disastri naturali come il terremoto che nel 1755 rase al suolo Lisbona, uccise 30 mila abitanti con le pietre e le fiamme e le acque del Tago, impressionò l’Europa al punto da ispirare il più famoso fra i «contes philosophiques» di Voltaire: Candide, che lasciò in eredità per secoli la povertà così pittoresca delle donne con i carichi in testa per le viuzze dell’Alfama fra i muri fatiscenti in interi quartieri senza acqua corrente e senza fogne.
Il Portogallo aveva continuato a dormire anche nei 48 anni di dittatura paternalistica dell’ascetico Salazar e degli oligarchi suoi successori, tempo in cui la censura politica era uno scherzo in confronto a quella dei costumi, quando nelle librerie si trovavano Marx e il Che, ma nelle edicole non c’era una giarrettiera. Per non parlare dei cinema: quel dittatore vecchio già da giovane riservava gli schermi ai western, a Walt Disney e ai film sui pastorelli di Fatima. Fu anche per questo che quando scoppiò, una quarantina di anni fa, la rivoluzione dei garofani ebbe davvero il volto di una festa di fiori. Soprattutto rossi, nascondendo sotto una sbornia ideologica le rughe di una maturità precoce, le amarezze immediate, le angosce per il futuro. Tutte cose che non si leggevano negli slogan arcaici, residui di una ideologia già in dissolvimento altrove.
In quella che fu la serra dei garofani vendono ora crisantemi e rose. Ma è l’unico segno di continuità. Per ritrovarla nel passato più vero non resta, della Lisbona angosciata di oggi, che una visita al Museo del Fado, che racchiude in un edificio rosa vicino al porto parole e manufatti dell’antica Saudade: grammofoni, dischi polverosi, qualche video di antiche performance, un pianoforte ottocentesco e una chitarra portoghese antica. E una spiegazione con una scritta su un muro: «Il Fado è un poema che può essere ascoltato e visto, ma che non si può tradurre. È la fontana della Saudade, uno stato profondo di desiderio per qualcuno o qualcosa che si ama e si sa bene che non tornerà mai». È con questo documento più intimo che rasserenante che i portoghesi si presentano all’esame delle urne europee.

Alberto Pasolini Zanelli, ItaliaOggi 30/4/2014