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 2014  aprile 30 Mercoledì calendario

LA GUERRA DI RUDI

[Intervista a Rudi Garcia]
«Quando ho iniziato a fare questo mestiere dicevo che al 70% era importante il lavoro sul campo e al 30 la gestione dei rapporti con i giocatori, i dirigenti, la stampa. Oggi è l’inverso». Rudi Garcia è l’allenatore della Roma. Francese e un po’ spagnolo, pochissimo italiano. Dopo nove mesi dall’arrivo, s’è visto solo nei dopopartita alla tv. Si è fatto schermo della poca conoscenza della lingua, se l’è cavata bene. «Chi contesta non è un tifoso della Roma, forse è della Lazio», mandò a dire (in francese) agli ultra imbufaliti per la sconfitta in coppa Italia contro gli odiati rivali. Vinto il derby, il primo exploit: «Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio».
Figlio di un allenatore, centrocampista di secondo piano con il Lille, allenatore a sua volta della squadra di quartiere (Corbeil, banlieue parigina). Poi un passo alla volta fino alla panchina del Lille. Vince Coppa di Francia e campionato. Il padre muore d’infarto guardando in tv la sua prima partita in serie A. Lui prima di ogni incontro chiama il suo numero e ha chiesto alla mamma di rispondere per tenere vivo questo piccolo, struggente portafortuna.
«In Francia non ho lasciato niente. Tornerò? Vedremo»
È l’unica debolezza che confessa. La vita privata - tre figlie e una moglie, dalla quale è separato da tempo - resta fuori dal personaggio. Faccia da canaglia francese, mascella che ostenta sicurezza, alla Roma ha infilato una delle stagioni migliori del club dopo anni di incertezza e depressione.
Ha deciso di raccontare la sua vita in un libro (Tutte le strade portano a Roma, Mondadori). Perché a questo punto della carriera?
«È la mia storia. Quando ho iniziato a scriverla, due anni fa, non sapevo di venire a Roma. Un amico giornalista mi aveva proposto di fare un libro. E io: ma di che parliamo? Ci ho pensato su e sono venute fuori 250 pagine. E’ stato come fare una pausa per guardarsi indietro, facendo un mestiere nel quale a volte non c’è tempo neppure di guardare avanti».
Ha lasciato la Francia con qualche rancore?
«In Francia non ho lasciato niente. Se ci tornerò? Vedremo. Non faccio progetti e non soffro neppure di nostalgia: alla fine di un campionato non so mai cosa farò. Pesante per chi mi sta vicino, ma sono così».
Ha scritto: «Un allenatore dev’essere un attore».
«Soprattutto con i giocatori. Ogni giorno devi recitare un ruolo, fare teatro. Se hai qualche incertezza, devi mostrare sicurezza. E un po’ come sgridare i figli: è teatro, ma si fa per il loro bene. Un allenatore è un po’ tutto: un papa, un fratello, un assistente sociale. La cosa interessante di questo lavoro, e di tutti quelli in cui si è responsabili di un gruppo, è il fatto che ogni uomo è diverso dall’altro:uno ha bisogno di un papa, l’altro di qualcuno che gli stia addosso o che gli dia fiducia».
I giovani sono migliori di quando giocava lei?
«Il calcio è lo specchio della società, vale anche per loro. Ho molto rispetto per il passato e penso ci siano cose da conservare. Tipo dirsi buongiorno e mostrare rispetto verso gli altri».
Penso al rapporto tra Ferguson e Beckham, un vecchio socialista e una superstar planetaria. Come si fa?
«Dipende. A Lille ho avuto Eden Hazard, che sta diventando uno dei più forti al mondo:
era semplice, tranquillo, umile; non aveva bisogno di un padre autoritario ma di qualcuno che gli desse consigli di buon senso. Oggi concediamo troppo ai giovani, perché abbiamo paura che cambino club, ma questo è un danno per la loro personalità. La "fame" è importante, come una giusta retribuzione. Ne troppo ne troppo poco, altrimenti perdi la testa: sei giovane, ricco, famoso e hai avuto tutto troppo velocemente».
Le è servito allenare una squadretta della banlieue?
«Molto. Intanto perché ho fatto quasi tutto da solo; poi perché mi sono dovuto confrontare con ragazzi che a casa avevano una vita durissima e grandi difficoltà a trovare un lavoro. Ma se rispetti e chiedi rispetto, le cose possono andare bene».
Giorni fa cenava a Trastevere. Come vive a Roma?
«Vado a mangiare fuori, faccio la spesa. Devo solo arrivare un po’ più tardi degli altri, parcheggiare vicino, chiedere un tavolo tranquillo. Tutto bene: ma il rispetto della vita privata per me è fondamentale ed è una cosa di buon senso».
E buon senso anche dire ai tifosi incazzati: «Chi contesta è della Lazio»?
«Quando sono arrivato c’erano contestazioni e insulti: dovevo proteggere i ragazzi. Non era ancora iniziata la stagione, c’erano un progetto nuovo e un nuovo allenatore, meritavamo un po’ di credito. Forse ciò di cui oggi vado più fiero è di aver ridato ai tifosi l’orgoglio di essere romanisti».
Ripete spesso: «Non giudico le cose italiane».
«Sono qui da poco. Ho detto solo che un calcio famoso come quello di serie A non può avere stadi cosi vecchi e brutti. Mi hanno spiegato che una legge aiuterà la costruzione di nuovi impianti. Allora andiamo avanti, facciamoli più accoglienti».
Il tifo ultra è sempre positivo? Avete giocato spesso con la curva chiusa.
«La curva è il cuore dello stadio: all’Olimpico è una fantastica comunione fra tifosi e squadra. Certo, vorrei che la gente venisse alla partita con i bambini, come accade in Inghilterra. Poi quest’anno ho scoperto la "discriminazione territoriale": una buona idea se si vuole avere un calcio più pulito, ma applicata male. Non possiamo dare l’immagine dell’Italia con gli stadi mezzo vuoti per ragioni diverse dal razzismo».
Sicuro che sia così? Non c’è razzismo nel calcio?
«Per me il calcio è una scuola di vita. Nello spogliatoio non conta la religione o il colore della pelle, conta solo se uno gioca bene oppure no. Alla Roma ho un serbo, un bosmaco, un croato: tutti insieme, tutti intelligenti, fanno lo stesso mestiere».
Della sua squadra ha detto: «Con questi giocatori potrei andare in guerra».
«Non sono solo buoni, hanno anche grande carattere, danno il meglio ogni secondo e lottano per un centimetro in più. Con loro si può andare alla guerra e vincerla».
Speriamo di no. In guerra, dico.
«Ma no, guerra per finta, certamente».